L'intervista
domenica 19 Maggio, 2024
di Gabriella Brugnara
Una storia poco conosciuta, che ha come protagonista il console del Ruanda Pierantonio Costa (Mestre, 1939-Germania, 2021). Un imprenditore di successo che ha saputo «inventarsi» come soccorritore e salvare più di duemila persone durante il genocidio in Ruanda, durato circa cento giorni, dal 6 aprile alla metà del luglio 1994, e di cui quest’anno ricorre il trentennale. Un conflitto etnico, «una macchia sulla coscienza dell’umanità» che ha avuto come conseguenza un milione di morti.
Una vicenda che Giuliano Rizzi ingegnere, sociologo, funzionario della Provincia di Trento, ma anche cooperante internazionale nella regione dei Grandi Laghi in Africa, ha ricostruito in «Ho solo obbedito alla mia coscienza. Pierantonio Costa e il genocidio in Ruanda» (Edizioni Del Faro, 2024). Il libro da lui curato, che raccoglie il contributo di alcuni studiosi e amici di Costa, sarà presentato domani alle 17 alla libreria Ancora di Trento. Con Rizzi interverranno Luciano Scalettari e Alessandro Rocca, rispettivamente autore e regista del documentario «La lista del console», dedicato a Costa.
Dottor Rizzi, come è avvenuto il suo incontro con il console Pierantonio Costa?
«Avevo sentito parlare di lui quando, nei primi anni Duemila, iniziai a interessarmi al Ruanda e nel 2014, nell’ambito di un progetto di cooperazione allo sviluppo nella zona dei Grandi Laghi, sono riuscito a incontrarlo a Kigali nel periodo meno indicato: durante le giornate del ventennale del genocidio. Era difficile anche muoversi perché erano giornate di lutto nazionale e quasi tutte le attività erano bloccate. Desideravo conoscerlo e intervistarlo, perché credo sia importante avere dei testimoni a cui guardare e da cui lasciarsi ispirare. Mi ha subito dato l’idea di un uomo in cui la diplomazia conviveva con un’operatività concreta e distante da discorsi solo formali».
Ce ne delinea un breve ritratto?
«Era console onorario, ma nella vita è stato un imprenditore di successo, che si è inventato come “soccorritore” di successo, dimostrando un’incredibile capacità di salvare il maggior numero di persone possibili, senza alcuna distinzione di razza e senza alcun pregiudizio. Probabilmente oltre duemila, ma non lo sapremo mai con precisione, anche perché ho capito che Costa era un uomo di “operoso silenzio”. Una persona molto modesta, che ha scelto di contravvenire all’ordine “di rimanere fermo” che gli era stato impartito dai superiori. “Chi oggi mi descrive come un eroe lo fa solo per togliersi i sensi di colpa per non avere fatto niente”, sono queste le sue parole».
Un’operazione di salvataggio con cui ha messo a rischio la sua stessa vita.
«Ha inventato tutti i modi possibili per intervenire e quando gli ho chiesto le ragioni di tutto questo mi ha risposto: “Io non ho fatto niente: sono state le circostanze che mi hanno fatto fare. Ero console e compito del console è aiutare e proteggere i cittadini italiani, ma poi anche tutti gli altri”. È riuscito infatti a portare in salvo tutti gli italiani, circa centosettanta, anche con l’aiuto dei militari di altre nazioni, così come ha accompagnato nei punti di raccolta persone non italiane e le ha fatte salire sui convogli».
Nel libro racconta anche del salvataggio di diversi bambini, in particolare di quelli dell’orfanotrofio di Nyanza.
«I bambini rappresentavano la ragione centrale dell’impegno di Costa. Per salvare i bambini dell’orfanotrofio, si è appoggiato alla Croce Rossa e alle Organizzazioni non governative, rimaneva comunque il rischio di far massacrare tutti i bambini sulla via di fuga. Con il via libera del prefetto, che poi li ha seguiti, e dei militari, su tre minibus da diciotto posti l’uno è riuscito a stipare il numero incredibile di trecentosettantacinque bambini. Dopo innumerevoli posti di blocco, in cui fu necessario scendere, discutere, spiegare, lasciare mance, alla sera raggiunsero la frontiera. Anche qui non fu facile, ma con la lista autorizzata dei bambini e grazie alla presenza del prefetto, il funzionario dell’immigrazione non poté opporsi: per farli passare tutti ci vollero ben quattro ore».
Perché si parla di una tragedia «pianificata dove alcuni, approfittando delle differenze etniche, instillarono il seme del male e crearono un nemico da combattere»?
«Nel Paese esistono due principali etnie, gli hutu, che costituiscono la maggioranza, e i tutsi. Al loro arrivo, i colonizzatori belgi scelsero come etnia loro alleata i tutsi, ponendo l’altra in una posizione di soggezione. Quando, negli anni Sessanta del Novecento, il Ruanda diventò indipendente, il tribalismo prevalse sull’idea di unità nazionale. Fra le due etnie, tra l’altro, esiste una lotta atavica, che deriva anche da una diversa stratificazione lavorativa: i tutsi sono pastori, gli hutu agricoltori. In questa situazione nel 1994 scoppiò la rivolta degli hutu contro i tutsi, compiuta in gran parte con il machete. Dopo il genocidio, la situazione si rovesciò, e il governo fu costituto dalle forze militari tutsi, dirette dall’attuale Presidente Paul Kagame».
Un genocidio in cui il ruolo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu è venuto meno.
«Il Consiglio ha reagito con indifferenza all’aprirsi di questa sanguinosa guerra civile, tradendo il suo compito, che è per l’appunto quello di salvaguardare la sicurezza dell’umanità. Il generale che comandava le scarse forze dell’Onu presenti sul territorio, il canadese Romeo Dallaire, nel suo libro racconta di come abbia cercato di allertare la comunità internazionale al fine di soffocare il genocidio al suo inizio e di come tutti i suoi appelli siano rimasti ignorati. Non solo. I pochi Caschi Blu presenti, si sono addirittura ritirati».
Concludiamo con il messaggio sotteso al titolo del libro: «Ho solo obbedito alla mia coscienza».
«Prima cosa, vorrei dire che è innegabile che il male esista, ma ciascuno di noi può tentare di fare un po’ di bene. Inoltre, è vero che c’è stato il genocidio perpetrato dagli hutu sulla minoranza tutsi, ma poi la situazione si è ribaltata. Oggi si parla sempre della parte tutsi perché, si sa, la storia la scrivono i vincitori».
l'intervista
di Davide Orsato
L’analisi del giornalista che ha di recente pubblicato un manuale per spin doctors dal titolo «Non difenderti, attacca» e contiene 50 regole per una comunicazione politica (imprevedibile e quindi efficace)