La biografia
venerdì 24 Maggio, 2024
di Alberto Folgheraiter
«Gentilissima signora, Le parrà strano che ormai trascorsi tre mesi dall’orribile delitto che la privava del suo amato consorte, le giungano le condoglianze di una persona a Lei intimamente legata da vincoli di parentela. Anche in questo lontano paese è giunta l’eco dolorosa del delitto che ha commosso il mondo intero. […] Abbia fede nella bontà d’Iddio che le darà forza e rassegnazione per superare la grande prova».
Così scrisse da Comasine, in val di Peio, Celesta Zanon vedova Sonna a Velia Titta (1890-1948) vedova dell’onorevole Giacomo Matteotti. Era il 18 settembre 1924, un mese dopo «in cui fu data onorevole sepoltura al caro estinto». Celesta era una lontana parente dell’uomo politico di Fratta Polesine fatto rapire e assassinare da Benito Mussolini il 10 giugno 1924 e il cui cadavere fu trovato 75 giorni dopo, il 16 agosto, in un fossato alla periferia di Roma.
Anche don Giulio Daz (1863-1914), il curato di quel «lontano villaggio» che aveva appena 199 anime, aveva inviato un telegramma di condoglianze alla vedova e ai figli del deputato socialista: Gian Carlo (1918-2006); Gian Matteo (1921-2000) e Isabella (1922-1994).
La famiglia Matteotti, infatti, aveva radici in val di Peio almeno dal XVIII secolo. Nella seconda metà del Settecento, il capostipite, Matteo Matteotti, aveva ottenuto la licenza di estrazione del materiale ferroso (magnetite) dalle miniere, attive sin dal 1300, sulla montagna di Comasine. Da qui, dopo una prima lavorazione, il ferro era «esportato» in pianura, nel ducato di Modena e nelle «vecchie provincie». Sulla scia dei commerci del rame e dei manufatti di ferro, la famiglia Matteotti si era trasferita ad Arquà Polesine nella prima metà del XIX secolo. Nel 1848, infatti, presso la Camera di Commercio di Rovigo fu iscritta la ditta di «Matteo Matteotti e Fratelli fu Stefano». Era una delle aree più misere del Paese, con le abitazioni che un’inchiesta del 1885 definiva «tane e topaie», nelle quali «si piange la vacca morta e ci si rassegna per la moglie perduta». Tuttavia, tra il 1860 e il 1866, la famiglia Matteotti aveva fatto fortuna con l’acquisto delle terre espropriate al clero e alle parrocchie. Difatti, Girolamo Stefano divenne un ricco possidente con 156 ettari di campagna frazionati su 12 comuni del Polesine. Prestava denaro dietro interesse e con ipoteca. Per questo, a Fratta non erano benvoluti.
Il matrimonio di Girolamo con Elisabetta Garzarolo (1851-1931) di Fratta Polesine aveva portato sette figli. Dei primi cinque solo Matteo (1876-1909) aveva superato l’anno di vita. Poi vennero Giacomo (1885-1924) e Silvio (1887-1910). Matteo e Silvio moriranno di tubercolosi mentre lo stesso Giacomo, colpito dalla TBC, riuscirà a superare l’infezione e, con essa, a essere esonerato, «per debolezza polmonare», dall’arruolamento nell’esercito italiano sul fronte della Grande guerra.
Alla gracile costituzione fisica s’era aggiunta la vedovanza della madre che si era ritrovata con un «figlio unico». A 16 anni Giacomo Matteotti scrisse un primo articolo sul periodico dei socialisti polesani: «La Lotta». Aveva abbracciato il socialismo, da lui considerato «l’unica speranza di cambiamento». Non è dato sapere quanto queste idee fossero condivise dal padre, Girolamo, ricco possidente, il quale morirà l’anno seguente (1902) all’età di 63 anni.
Ottenuta la licenza classica al liceo Celio di Rovigo «con una votazione molto alta», Giacomo proseguì gli studi umanistici laureandosi, il 7 novembre 1907, con il voto di 110 e lode nella facoltà di Legge dell’Università degli studi di Bologna. Giampaolo Romanato («Un italiano diverso. Giacomo Matteotti», Longanesi, 2011) scrive che per realizzare la tesi di laurea sul tema della recidiva, Matteotti aveva viaggiato in mezza Europa. Il giovanotto, infatti, parlava correttamente francese, inglese e tedesco. Nel 1908 era stato eletto consigliere comunale a Fratta Polesine. Il 7 luglio 1914 Giacomo Matteotti fu rieletto consigliere provinciale a Occhiobello. L’Austria-Ungheria si preparava alla guerra; l’Italia l’avrebbe dichiarata contro l’Austria l’anno seguente (24 maggio 1915). In quella tragica estate l’uomo politico polesano fu colpito dalla TBC, l’infezione che la vigilia di Natale del 1910 si era portato via il fratello Silvio.
Riavutosi dalla malattia, nel gennaio del 1916, a Roma, Giacomo Matteotti sposò Velia Titta, la ragazza della quale si era innamorato anni prima. Lei avrebbe voluto il rito religioso, lui, laico e socialista, la convinse a un’unione con rito civile.
Intanto la guerra divampava. Matteotti divenne un fervente antimilitarista, al punto che, nonostante il diritto all’esenzione dal servizio militare, fu richiamato sotto le armi e spedito lontano dal fronte, in Sicilia, perché le regie autorità lo ritenevano «assolutamente pericoloso» e un «pervicace, violento agitatore, capace di nuocere in questo momento agli interessi nazionali».
Tornò a casa nel marzo del 1919, quattro mesi dopo che la guerra era finita con la «vittoria« (mutilata) dell’Italia. Il 16 novembre 1919 si tennero le elezioni politiche, le prime con sistema proporzionale. Per i socialisti del Polesine («la provincia più rossa d’Italia») fu un successo senza pari: ottennero il 70,1% dei voti e mandarono a Roma ben sei deputati, con Giacomo Matteotti secondo quanto a preferenze. Fin da subito il giovane deputato polesano-trentino si segnalò per le sue intemerate contro il capo del governo, Nitti, e, di lì a qualche mese, contro Giovani Giolitti al suo quinto gabinetto. Minacciò «l’assalto della piazza» contro «il vostro regime». Nell’autunno del 1920, in piena campagna elettorale per le elezioni amministrative, i socialisti del Polesine usarono la mano forte contro i cattolici, arrivando perfino a bastonarne qualcuno. A Lendinara, Matteotti intervenne per salvare il candidato Umberto Merlin dalle bastonate. Il 15 ottobre i socialisti trionfarono in tutti i 63 comuni della provincia di Rovigo ma furono denunciati brogli e minacce ai seggi. Gli scontri tra fascisti e socialisti dilagarono: a Ferrara vi furono sparatorie e vittime su entrambi i fronti; a Badia Polesine uno studente fu mortalmente accoltellato. La violenza cresceva e dilagava. Il 31 gennaio 1921, alla Camera, Giacomo Matteotti denunciò le violenze fasciste: «Oggi in Italia esiste un’organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nella sua composizione e nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano apertamente che si prefiggono atti di violenza […] e li eseguono non appena avvenga o si pretesti che avvenga alcun fatto commesso dai lavoratori a danno dei padroni o della classe borghese». Il 10 marzo 1921 Matteotti intervenne alla Camera per segnalare nuove violenze da parte dei fascisti. Due giorni dopo fu aggredito, sequestrato e «forse stuprato» a Castelguglielmino in provincia di Rovigo. Lo «consigliarono» di lasciare la provincia. Il 15 maggio 1921 fu rieletto deputato nel collegio di Rovigo con oltre ventimila preferenze ma i socialisti persero due terzi dei voti a causa, si disse, «del loro inconcludente massimalismo e delle violenze» (Romanato, 2011).
Il vento stava rapidamente cambiando.
Il 1° ottobre 1922, al congresso socialista di Roma, Giacomo Matteotti fu nominato segretario del Partito Socialista Unitario. Nel Psu confluirono 61 deputati, la metà di quelli eletti nelle liste del Psi. Il 28 ottobre alcune decine di migliaia di fascisti compirono la «marcia su Roma». Mussolini ottenne da Re l’incarico di formare il Governo. Passò un mese. Il 2 dicembre, Matteotti intervenne alla Camera accusando apertis verbis i fascisti di essere «bande criminali».
La replica di Aldo Finzi, ebreo polesano, neodeputato fascista: «Matteotti è inaffidabile». Disse che era «ultracollaborazionista» a Montecitorio, internazionalista e rivoluzionario in Polesine».
Costretto a una vita semiclandestina, Matteotti scelse di viaggiare in Europa: Londra, Berlino, Parigi. Nel febbraio del 1923, la polizia gli ritirò il passaporto.
In aprile del 1924, senza il documento di espatrio, Matteotti lasciò clandestinamente l’Italia passando dalla Svizzera. A Londra ottenne informazioni relative alla compromissione di uomini del regime nelle forniture di petrolio all’Italia. Era stato rieletto deputato, per la terza volta, nella lista del PSU.
Il 30 maggio 1924 l’inizio della fine. Nella prima riunione della Camera, convocata per approvare il risultato elettorale, Matteotti intervenne per contestare le elezioni che si erano svolte, disse, «sotto la minaccia di una milizia armata al servizio del Capo del Governo». Vi fu un parapiglia con i fascisti che gli urlavano contro. Ai colleghi socialisti che si congratulavano per l’intervento, Matteotti replicò: «Adesso preparatevi alla mia commemorazione funebre».
Passarono dieci giorni. L’11 giugno, a Montecitorio, era previsto il dibattito sull’esercizio provvisorio. Girava voce che Matteotti avrebbe parlato delle tangenti che una società petrolifera, la Siclair Oil, aveva elargito a esponenti del partito fascista in cambio di concessioni da parte del regime. Roma, martedì 10 giugno: alle 16.30, l’onorevole Matteotti uscì di casa per recarsi alla Camera dei Deputati. In Lungotevere Arnaldo da Brescia fu aggredito da cinque fascisti i quali lo caricarono a forza su una vettura, una Lancia nera, che si allontanò rapidamente. Matteotti cercò di difendersi, di divincolarsi, gettò dal finestrino la sua tessera di parlamentare. Giuseppe Viola, uno degli energumeni che lo avevano sequestrato, con un pugnale colpì Matteotti tra l’ascella e il torace. Il cadavere fu scaricato e sepolto malamente in un bosco alla periferia della Capitale. Qui fu scoperto, in avanzata decomposizione, sabato 16 agosto 1924.
Il 18 agosto 1924 la salma di Matteotti fu trasferita a Fratta Polesine, in treno, di notte per evitare manifestazioni di cordoglio lungo il tragitto. Al funerale parteciparono diecimila persone, compresi duemila fascisti ai quali la vedova aveva vietato di indossare la camicia nera. Era l’estate del 1924, anno II dell’Era Fascista.
Nel XXX anniversario dell’omicidio (1954), la federazione trentina del Partito socialista Democratico Italiano fece porre una lapide sulla «casa avita» di Giacomo Matteotti, a Comasine, per ricordare il parlamentare polesano che «propugnò i diritti dei lavoratori affrontando consapevole il martirio oggi nel mondo intero simbolo di Giustizia sociale e Libertà».