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giovedì 13 Giugno, 2024

Alessandro Andreatta va in pensione: «Nell’ultima gita a Vienna volevo sedermi al posto di Degasperi ma non mi lasciarono»

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L'ex sindaco di Trento lascia la sua cattedra da insegnante di Italiano, Storia e Latino: «Gli studenti mi hanno regalato una maglietta “Honoris causa otium” e un trentatré giri di De André»

Sedici anni di insegnamento, ventidue in politica come assessore (1998-2008) e sindaco di Trento (2008-2020), portando sempre con sé le chiavi dell’urbanistica, e poi altri quattro anni in cattedra. Dal primo settembre Alessandro Andreatta, professore di Italiano, Storia e Latino al liceo classico Arcivescovile, andrà in pensione. Martedì è stato il suo ultimo giorno di scuola con gli studenti. «Mi hanno regalato una maglietta “Honoris causa otium”, alcuni libri e anche un trentatré giri di De André», dice l’ex primo cittadino, che la scorsa settimana si è regalato anche l’ultima gita con le sue classi. La passione per l’insegnamento è nata dalle lezioni di un professore di Lettere, quella per la politica è fiorita nel Gruppo Don Milani a 16 anni. La più bella? «Amo tutt’e due le vocazioni». Ma Andreatta si ritira anche dalla politica? «Mi hanno chiesto di dare una mano, non lo escludo, ma non con ruoli istituzionali. Voglio dedicarmi ai miei tre nipotini e al volontariato».
Professor Andreatta, come è andata l’ultima gita?
«Molto bene. È un bel progetto: ogni anno scegliamo una meta dal valore istituzionale-internazionale. Siamo andati a Vienna perché ospita una sede dell’Onu. Nei prossimi anni i ragazzi andranno a Bruxelles o a Strasburgo per il livello europeo della politica, a Roma per il livello nazionale e infine ad Atene, culla della democrazia e della partecipazione».
Insomma, non molla mai la politica.
«Ho colto al volo questo progetto. Ho una passione innata per la politica. Siamo andati a vedere anche il vecchio parlamento austriaco. Desideravo sedermi sulla sedia di Degasperi, ma non era possibile. Ho potuto vederla da non troppo lontano».
Com’è il professor Andreatta in gita?
«In alcune visite esigevo che i ragazzi seguissero con attenzione la guida. Il programma era fitto: un giorno abbiamo fatto 12 chilometri. I ragazzi arrivavano stanchissimi alla sera, ma contenti. C’erano comunque dei momenti in cui venivano lasciati liberi. Dopodiché io sono una persona che scherza. La gita è un’occasione per parlare di tutto, di musica, di sport, dei loro desideri».
Di cosa parlano oggi i ragazzi?
«Di quello di cui parlavamo anche noi. È vero, i tempi cambiano (vedi i cellulari, i social), ma alla fine i ragazzi si ritrovano sempre a parlare di sport, di canzoni, di tutti i generi, di qualche cottarella, dei loro primi amori. Questa è la costante. Le diversità sono date dal ritmo: oggi gli studenti hanno bisogno di tempi veloci».
Quando è nata la sua passione per l’insegnamento?
«Nasce in seconda media, a 13 anni. Mi sono innamorato del modo di fare scuola e della competenza del mio professore di Lettere, Sergio Fontana. Poi, dopo aver fatto il liceo classico Prati, mi sono iscritto a Lettere a Padova. Ho iniziato a insegnare stabilmente nel settembre 1982, poi sono andato avanti fino al ‘98, quando sono diventato assessore. La mia vita si divide in ventidue anni di giunta comunale e in vent’anni e 11 mesi di scuola».
Com’è nata invece la passione per la politica?
«Certamente il fattore scatenante è stato il Gruppo Don Milani. Avevo 16 anni. Eravamo un gruppo di giovani avviati, non tanto alla poltiica, ma alla conoscenza della scuola. All’interno di questo gruppo c’erano Lorenzo Dellai, Gianni Kessler, Michele Nicoletti, Beppe Zorzi e ne dimentico sicuro altri. La politica era dentro anche alla mia famiglia: papà è stato impegnato nel sindacato, mia mamma si è sempre prodigata per gli altri. Non sono mai stato iscritto a un partito. Sono entrato in Comune nel ‘95 come consigliere con i Democratici popolari, poi nel ‘98 è nata la Margherita, di cui sono stato uno dei fondatori, e infine è arrivato il Pd».
Quali sono stati i vent’anni più belli? Quelli nella scuola o quelli in Comune?
«Amo tutt’e due le mie vocazioni. Qual è la differenza? Quando sono a scuola so che devo occuparmi di 70-100 studenti, e sono interamente concentrato su di loro. Fare politica, invece, significa occuparsi di 120mila persone, dal neonato all’ultracentenario. In una città c’è tutto: maschi e femmine, adulti, giovani e anziani, ricchi e poveri, le persone più attrezzate culturalmente e quelle meno attrezzate, quelle che fanno i lavori più quotidiani e quelli che fanno una professione aderente al proprio percorso di studi. Questo occuparsi di tutti mi piaceva da matti».
È tornato a scuola nel 2020, dopo ventidue anni, appunto: come l’ha trovata?
«Ho trovato una maggiore attitudine a lavorare in gruppo tra docenti. E poi ho trovato tanta tecnologia. Mi sono dovuto abituare al registro elettronico (ride)».
La scuola è rimasta «investita» dalla tecnologia?
«Il rischio è che ci sia una preponderanza della dimensione tecnico-tecnologica-scientifica rispetto alla necessità e all’opportunità di avere tempi di riflessione, di pensiero. Deve sempre esserci la volontà di creare un equilibrio, che non significa 50 e 50, ma significa garantire l’opportunità di trasmettere, attraverso alcune materie, la voglia di capire e confrontarsi».
Senta, ma lei, ora, tornerà a fare politica?
«C’è un tempo per ogni cosa. Se vado in pensione significa che sono vecchio, a febbraio ho compiuto 66 anni. Quindi non credo di tornare a fare politica. Mi hanno chiesto di dare una mano, non escludo che questo possa avvenire, ma sicuramente senza ricoprire ruoli istituzionali. Ho fatto 22 anni di giunta comunale: quello è stato il mio tempo. Mi impegnerei piuttosto a suscitare la vocazione per la politica e a stimolare la partecipazione».
Come si può stimolare la partecipazione tra i giovani?
«In questi anni ho voluto sperimentare già nel triennio qualche momento informativo. E ho potuto constatare che si può cominciare a parlare di democrazia e partecipazione anche nella prima e nella seconda. Gli studenti vivono in prima persona la partecipazione perché sono chiamati a eleggere due rappresentanti di classe: c’è qualcuno che si propone e che poi ha il dovere di sentire la “base” per formulare delle proposte insieme agli altri rappresentanti. La scuola può essere una palestra importante di partecipazione. Prima c’erano i partiti, c’era il sindacato, c’erano alcune associazioni cattoliche, ora è rimasta solo la scuola. Ovviamente non bisogna indirizzare gli studenti verso un pensiero politico, su questo sono rigorosissimo, ma si può educare alla politica. Del resto la politica non è altro che individuare un’ipotesi di soluzione, esporla per cercare consenso e poi fare sintesi. La politica è mediazione, nel senso più nobile del termine. E la sintesi è la cosa che mi piace di più della politica perché è la ricerca del più alto punto di convergenza. I giovani devono interessarsi alla politica, altrimenti la subiranno».
Prima da assessore, poi anche da sindaco, lei ha sempre esercitato la delega all’urbanistica. Che effetto le fa vedere la città trasformarsi?
«Quando sono diventato assessore nel ’98 ho cominciato a innamorarmi della mia città e a interrogarmi sulla Trento ideale del futuro. Chi fa urbanistica cerca di costruire la migliore città possibile. Nel 2001, ben 23 anni fa, con il sindaco Pacher abbiamo inserito nel Piano regolatore generale (Prg) la previsione dell’interramento della ferrovia e il boulevard di superficie. Vedere che ancora oggi si sta andando avanti in questa direzione e che avanza la condivisione in città è una grande soddisfazione. La città cambia e si trasforma nei problemi e nelle opportunità. Bisogna saper cogliere le opportunità e rilanciarle. Negli ultimi vent’anni sono stati importanti gli occhi di alcuni urbanisti come Busquets (per il boulevard di superficie), Piano (per le Albere), Botta (per la facoltà di Giurisprudenza) e Gregotti (per il progetto sulle aree inquinate di Trento nord). Tutte figure che all’epoca state contestate. Ma leggere e immaginare la città del futuro attraverso lo sguardo di chi proviene da fuori permette di avere un respiro più grande».
A cosa bisognerà fare attenzione nella realizzazione dell’interramento e del conseguente boulevard?
«In questi anni i tecnici del Comune, con la supervisione del sindaco Ianeselli e dell’assessora Baggia, hanno realizzato interessanti studi del territorio. Al posto della ferrovia si libererà uno spazio molto largo che metterà in comunicazione il nord e il sud, l’est e l’ovest, quindi cambierà la mobilità e il rapporto delle persone con gli spazi pubblici. Ecco, questi studi ci dicono di non fare cose strane attorno a questa area. L’errore più grande sarebbe quello di autorizzare interventi edilizi a sé stanti che non sono coerenti con il grande intervento dell’interramento, con la sua visione».
Cosa ne pensa invece del progetto delle torri Sequenza vicino alle aree inquinate di Trento nord? L’altezza delle palazzine – più alte delle torri di Madonna Bianca, una addirittura il doppio – fa discutere.
«Non c’è dubbio che è giusto costruire in altezza perché non si consuma nuovo suolo, però credo che Trento abbia una sua ragione, un suo equilibrio progressivo. Bisogna capire fino a quale altezza si può costruire. Non siamo a Milano».
La politica riaffiora sempre dalle sue parole. È preoccupato del fenomeno dell’astensionismo?
«Sì, sono molto preoccupato. Tutte le persone che credono nella politica devono trovare i giusti canali per riavvicinare le persone. Molto passa dalla credibilità dei politici. Noi politici – mi ci metto in mezzo anch’io – siamo responsabili dell’astensionismo. I politici non sono tutti uguali, ognuno risponderà di quello che ha fatto. Faccio un’ipotesi assurda: se tutti fossimo coerenti e credibili, i cittadini avrebbero un’immagine diversa e si riavvicinerebbero alla politica».