sabato 10 Agosto, 2024

Dal K2 al Dru: «Per Walter la montagna si scala da soli e a mani nude, mai per il vezzo di piantar bandiere»

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Diego Alverà ripercorre la parabola di un uomo che scelse la scalata come modo per comprendere la propria umanità e giungere all’essenza delle cose

Due citazioni, ad inizio libro. Una di Cesare Pavese: «Immortale è chi accetta l’istante». La seconda – «Sono un uomo che si visse fino in fondo» – è del grande protagonista del libro medesimo, Walter Bonatti. Dell’alpinista, esploratore, giornalista, scrittore, fotoreporterter, «il re delle Alpi» come venne chiamato, parla «Solo» – sottotitolo «Walter Bonatti dal K2 al Dru» – di Diego Alverà, classe 1965, cadorino di nascita, veronese di adozione, all’attivo numerosi titoli a tema sportivo e una nutrita produzione di podcast e spettacoli sempre sorretti da una passione narrativa che approda, con questa sua più recente fatica, ad una letterarietà che sa unire emozioni e vicende, uomini e luoghi (66THAND2ND l’editore, «Vite inattese» la collana, 188 pagine, 17 euro). Così, dopo aver narrato di Senna, Lauda e Villeneuve, lo scrittore affronta la vita – le vite, verrebbe da dire – di un gigante dell’alpinismo (nato a Bergamo nel 1930, morirà a Roma nel 2011) che a soli 35 anni decise di abbandonare le salite estreme per scegliere i reportage di viaggio, quelli per il settimanale «Epoca» che ne fecero uno degli italiani più amati e conosciuti dal grande pubblico. «Da decenni ero affascinato – dice Alverà – da questa figura di grande alpinista che a un certo punto decide di fare altro, senza limiti. Dopo il lavoro verticale in montagna è passato a quello orizzontale dei reportage, dall’Antartide all’Amazzonia, dal Borneo alla Patagonia. Quella della montagna è una tensione che mi porto dentro, alimentata da mio padre, grande bonattiano, e che ha trovato linfa nel fatto di aver frequentato fin da ragazzo, in vacanza, la val d’Aosta, le zone dove la leggenda di Bonatti è nata e cresciuta, dove la sua figura si vedeva e si sentiva».
«Io racconto vite – continua Alverà – che in qualche modo si sono scontrate con la mia, che mi hanno trasmesso delle cose che sono tornate utili. Mi hanno insegnato cosa fare di fronte alle difficoltà, come affrontarle. È stato così con Bonatti, uomo che ha coltivato valori non omologati, con energia e vitalità uniche. Un grande del Novecento che ho voluto raccontare in un periodo particolare, che ha segnato per sempre la sua vita e ha segnato anche la cronaca e il costume italiano, a ben guardare». «Solo» – titolo emblematico, la solitudine fu una scelta precisa di Walter Bonatti, tanto dolorosa quanto polemica – è una corda tesa tra quella notte sul K2, tra il 30 e il 31 luglio 1954, quando, come scrisse Bonatti stesso, «io dovevo morire e il fatto che sia invece sopravvissuto è dipeso soltanto da me» e 387 giorni dopo, il 21 agosto 1955, quando, dopo aver passato cinque giorni e quattro notti da solo sul pilastro sud-ovest del Petit Dru, una guglia di ghiaccio e granito nel massiccio del Monte Bianco, l’alpinista si trova in un punto cieco: bloccato su un piccolo gradino che sporge appena dalla parete verticale. Non può andare avanti e nemmeno tornare indietro. Oltre quei pochi centimetri di roccia su cui poggiano i suoi scarponi, il nulla, «un’aerea assenza di materia che affascina, schiaccia e risucchia».
Aveva tentato l’impresa del Dru proprio per esorcizzare il ricordo di una situazione altrettanto impossibile, verificatasi poco più di un anno prima dall’altra parte del mondo, quando era rimasto per una notte all’addiaccio in mezzo a una bufera di neve sotto la cima del K2, a ottomila metri di quota. Il racconto di Alverà è incalzante, affabulatorio, lungo 26 densi capitoli, scanditi da titoli secchi: Abisso, Ottomila, Libertà, Ossigeno, Fango, Ritirata, Rinascita, Attacco, Sangue, Pendoli, Fiducia, Vetta, Amici.
«Bonatti – sottolinea l’autore – sente di essere nel momento più difficile della sua carriera, ma anche il più esaltante: ha l’occasione di riscattarsi dalle polemiche in cui è stato trascinato dopo la spedizione nel Karakorum; e soprattutto di mettersi di nuovo alla prova, accettando la possibilità della fine. D’altra parte, per lui arrampicarsi è sempre stato qualcosa di intimo e personale. Scalare non significa conquistare una vetta, ma avventurarsi nell’ignoto, fronteggiare l’imprevedibile, sentirsi parte della montagna, assorbirne gli elementi, «la pietra e le venature, il gelo, il vuoto e il vento».
Meglio ricordare che le polemiche sulla scalata al K2 sarebbero durate decenni e che soltanto nel 2008 il Cai convaliderà la versione di Bonatti che smentisce una volta per tutte la verità «ufficiale», quella di Achille Compagnoni in particolare. Lo scrisse in uno dei suoi molti libri: «Quello che riportai dal K2 fu soprattutto un grosso fardello di esperienze personali negative, direi fin troppo crude per i miei giovani anni». Così Alverà ripercorre la parabola avvincente di un uomo che, sfidando prima di tutto sé stesso, ha scelto la scalata come un modo per comprendere la propria umanità, e giungere all’essenza delle cose: «Era un visionario, non un tecnico. Lui voleva salire alla sua maniera, concepiva l’andare in montagna come una crescita personale intima. Oggi la scalata è sport, per lui, e io lo sento molto vicino in questo, la montagna resta luogo filosofico, metafisico. La solitudine diventa buona compagna. C’era in lui uno spirito libertario segnato anche da quel che vide durante la guerra, in Val Seriana: giovani partigiani massacrati dai nazifascisti ed esposti al pubblico ludibrio, con ferocia».