la storia

lunedì 12 Agosto, 2024

La guerra in Uganda, l’uccisione del padre poi la malaria: «Così fui salvata da un volontario trentino che oggi è mio papà»

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Il racconto di Maria Stella Torach Conzatti, danzatrice afrobeat di Rovereto che nel 1998 venne ufficialmente adottata da Ennio, ingegnere di Borgo Sacco

Siamo in Uganda, è il 1989. Margaret e Victor hanno due figlie e Victor ancora non sa che nel grembo di sua moglie c’è Kevin, che nascerà nel 1989. Durante la guerra civile, Victor viene sequestrato e ucciso dai soldati dell’esercito di Resistenza del Signore, un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana capitanato da Joseph Kony. Così Margaret decide di fuggire verso il villaggio di Gulu, dove vive la madre Maria, per scampare al massacro assieme alle figlie. È qui che conoscerà il volontario trentino Ennio Conzatti, originario di Borgo Sacco, e se ne innamorerà. Non è la trama di un libro, né quella di un film. È la storia di Maria Stella Torach Conzatti, danzatrice Afrobeat di Rovereto, che, una volta, si chiamava Kevin.
La fuga e la corte del volontario «bianco»
Arrivata a Gulu, Margaret, incinta, iniziò a lavorare in un bar per provvedere alle figlie ed aiutare la madre che l’aveva ospitata. Ennio, all’epoca ventiseienne, era un ingegnere arrivato in Africa come volontario per dedicarsi alla costruzione di pozzi. «In quel periodo – racconta Maria Stella – era proprio a Gulu ed iniziò a frequentare il bar dove lavorava mia mamma. L’aveva notata ed iniziò a farle la corte ma l’uomo bianco per noi era sinonimo di colono, la persona dalla quale bisognava stare alla larga. Era il violentatore, che faceva figli con le donne nere e le abbandonava». Margaret aveva molta paura e non cedette alle sue lusinghe.
La malaria e le cure pagate da Ennio
A pochissimi mesi di vita, Kevin, dovette fare i conti con la malaria. Le cure erano troppo costose in Uganda e la madre Margaret era ormai senza speranza. «Fu Ennio che si prese cura di me e pagò i miei trattamenti». Ennio sfatò il cliché del colono cattivo e si rivelò essere, invece, uno di quei volontari «sempre in mezzo agli ugandesi» e che aiutava dove e come poteva. «Lo faceva da volontario senza alcun secondo fine – ricorda Maria Stella – e così da volontario si prese cura di me: veniva a casa nostra e dormiva con me, si preoccupava del mio stato di salute. Per me è stata l’unica figura maschile di riferimento nella mia vita». Non avendo conosciuto Victor, per Kevin, quell’uomo così diverso ma così vicino era per lei quello che più si avvicinava ad un padre, tanto che iniziò a chiamarlo «papà». «Quel giorno ci siamo scelti ancora prima che mia madre lo scegliesse – afferma ancora con emozione -. E mia nonna Maria le disse: “Margaret, se Kevin lo ha scelto, è l’uomo giusto anche per te”».
L’arrivo a Rovereto
Nel 1992, dalla relazione tra Ennio e Margaret nacque Alessandra, poi, una volta arrivati in Italia, Cristina nel 1993. Maria Stella continua con il racconto: «Dovemmo lasciare Gulu perché i massacri stavano arrivando anche lì. Le mie sorelle maggiori rimasero dalla nonna perché avevano superato i tre anni e non potevano più viaggiare associate al passaporto di mia mamma. Dovevano attendere il ricongiungimento familiare dall’Italia». Margaret soffrì molto il distacco e per dieci anni fece avanti e indietro. Da un lato aveva due bambine in Uganda sole, dall’altra aveva tre figlie piccolissime da accudire in Italia.
L’adozione e il cambio nome
«Venni adottata da mio padre Ennio nel 1998 e presi il suo cognome ma cambiai anche il mio nome – spiega Maria Stella -. In Uganda mi chiamavo Kevin Torach che nella nostra lingua significa “la morte è brutta”». Un nome che scelse la nonna materna a Gulu come auspicio dopo l’omicidio di Victor affinché Kevin non vivesse altri eventi così drammatici. «In Italia però mi dissero che Kevin era un nome maschile, quindi, mia nonna paterna preferiva chiamarmi Stella». All’età di 14 anni, Kevin, formalizzò il cambiamento all’anagrafe e decise di aggiungere Maria per omaggiare la nonna materna. «Comunque decisi di tenere Torach perché mi lega a mio padre Victor». Da quel momento Kevin si chiamerà: Maria Stella Torach Conzatti.
«Mi sento benedetta»
«Se penso a come sono venuta al mondo, mi sento benedetta e fortunata». Maria Stella vive la vita «guardando con gli occhi dell’amore», un amore che ha imparato da papà Ennio. Ed anche se non è quello biologico «posso affermare che mi ha dato anche più delle sue figlie». Affetto, attenzioni, cura e amore sono state alla base del loro rapporto padre-figlia e «questo mi ha insegnato che si può amare incondizionatamente anche se non c’è un legame di sangue». La sua, però, è una felicità dolceamara, perché ha comunque subito la morte del padre «a causa delle guerre dei potenti». «E quando vedo quello che accade in Congo o in Palestina – continua Maria Stella – mi si spezza il cuore perché tutto questo odio rovina delle vite e crea dolori immensi. Non tutti sono fortunati come me e non potranno mai raccontare ciò che è accaduto».
L’afrobeat e i musicisti che la segnarono
Oggi Maria Stella Torach ha 35 anni, è mamma di due splendidi bambini e vive con il compagno. Nonostante sia ormai in Italia da oltre trent’anni, nelle sue vene non ha mai smesso di scorrere la vibe africana, tanto che appena parte una canzone il suo corpo si muove a ritmo seguendo le note in completa autonomia, come posseduto da una forza soprannaturale chiamata musica.
Una passione, la sua, che indirettamente le è stata tramandata da una tradizione, quella africana, che utilizza i suoni e le canzoni «anche quando si tratta di funerali» spiega. Ma forse, c’è una storia ancora più particolare che potrebbe aver segnato il destino della ballerina afrobeat. «Quando ero piccola a Gulu c’era un gruppo di musicisti che si esibiva nei bar locali. Quando mia madre lavorava e non sapeva dove lasciarmi io li seguivo nel loro tour tra i villaggi ed io adoravo ascoltarli e ammirare come maneggiavano gli strumenti. Probabilmente crescendo con questo gruppo di musicisti, che per me erano diventati dei babysitter, e a forza di respirare quell’ambiente, l’ho portato con me per tutta la vita». E conclude: «La musica, per me, è e sarà sempre una compagna di vita».