Il Festival
sabato 31 Agosto, 2024
di Ilaria Bionda
Don Chisciotte è un personaggio senza tempo che da sempre ci insegna a non arrenderci, ad accogliere le fragilità e a cadere senza che questo significhi perdere, ma solo imparare a rialzarsi. Dopo «Moby Dick», Teatro dei Venti torna al Festival Oriente Occidente reinterpretando il cavaliere che combatte contro i mulini a vento, eroe della verità e paladino di giustizia. La rilettura dell’opera di De Cervantes modellata per il teatro di strada, nonché per i giorni nostri, sarà portata in scena a Rovereto nella serata di sabato 31 agosto dalle 18.30 (partenza da Borgo Santa Caterina). Stefano Tè, ideatore, regista e drammaturgo, si è avvalso del prezioso aiuto di Azzurra D’Agostino nella riscrittura dei testi e di una grande squadra, tra cast e tecnici, per portare al pubblico la poesia di Don Chisciotte fuori dai soliti schemi imposti dal tradizionale palcoscenico.
Stefano Tè, su cosa si basa la rilettura di «Don Chisciotte» del Teatro dei Venti?
«La nostra è una traduzione, una trasformazione, una messa in scena capace di relazionarsi agli spettatori che si incontrano in strada. Partendo dall’opera originale, Azzurra D’Agostino ha riscritto il testo riadattandolo a quello che per noi è il fine: comunicare e costruire una relazione con il pubblico. Una relazione che è poetica e deriva dal punto di vista che il romanzo offre: l’utopia di Don Chisciotte, le sue visioni, i suoi sogni. Come già con “Moby Dick”, anche in questo caso seguiamo la nostra linea poetica che va alla ricerca delle utopie».
Alla base dei vostri spettacoli c’è una ricerca artistica sul teatro per gli spazi urbani, come viene coinvolto il pubblico?
«Il teatro di strada ha dei capisaldi – la musica dal vivo, le macchine sceniche e i trampoli – che sono tutte delle soluzioni per tenere il pubblico vicino e attento a ciò che accade. Don Chisciotte durante la narrazione arriva allo stremo delle forze e trascina con sé Sancio in questa lotta potenzialmente inutile, però ci crede e combatte. E spesso accade che il nostro pubblico si unisca ai viaggi e alle parate utopiche dei personaggi. Lo spettacolo quindi si trasforma, diventa quasi una manifestazione: accade qualcosa di magico. Per fare ciò abbiamo approfondito in maniera rigorosa l’utilizzo degli strumenti classici, che funzionano al servizio della drammaturgia, ma abbiamo anche aggiunto un importante elemento di innovazione».
Quale?
«L’utilizzo della parola, del testo poetico, come altro elemento al servizio dello spettacolo e della drammaturgia. Normalmente nel teatro di strada non è presente, perché si usano solo numeri e attrazioni. Noi, invece, utilizziamo le attrazioni al servizio del testo e tutto insieme al servizio dello spettacolo, che contiene quindi un’attenzione, un desiderio da comunicare».
Il vostro «Don Chisciotte» è una rilettura anche dal punto di vista temporale. Cos’ha questa storia da dirci oggi, a più di 400 anni dalla sua pubblicazione originale?
«Tanto. Le visioni di Don Chisciotte e poi di Sancio, le speranze ma anche gli ostacoli, nella nostra rilettura sono riportati al tempo che stiamo vivendo. Cos’è cambiato da quando è stata scritta l’opera a oggi, per quanto riguarda ingiustizie, guerre, soprusi, violenze? Tutto questo, a noi, sembra ancora molto presente, sono argomenti che ci circondano. C’è stato chiaramente un grande lavoro di riscrittura, ma per il pubblico non è uno sforzo capire che si parla di oggi. E che si parla anche di domani: una buona parte dello spettacolo è infatti dedicata all’ascolto giovane, ai bambini, alla speranza nel futuro».
Se dovesse pensare a un Don Chisciotte odierno, contro quali mulini a vento combatterebbe?
«Uno è sicuramente l’ostinazione dell’uomo a trovare nella guerra la soluzione. E per guerra intendo non solo quelle con le armi, ma anche in generale il conflitto nelle relazioni interpersonali. Poi, un altro mulino a vento è la tendenza ad allontanare la negatività, il male, il dolore, andandoli a confinare in luoghi ben definiti. Le soluzioni che noi affidiamo al presente sono antiche, nonché sempre le stesse: si tende più a utilizzare la violenza anziché il dialogo».
E qual è quindi il messaggio di Don Chisciotte da fare nostro?
«Don Chisciotte ci dice che anziché continuare a dare la colpa agli altri, è importante accettare i nostri limiti, sapere che tutti siamo fatti sia di bene sia di male, e che quindi il male non è altrove ma fa parte di noi, come la negatività».
È quindi un invito a farsi carico delle fragilità?
«Sì, tutto si tiene in piedi quando immaginiamo soluzioni e ipotesi per il futuro proprio a partire dall’umano fragile. Tutto sta in piedi se accettiamo che dalle fragilità e dalla sofferenza possa nascere una possibilità, che anche l’essere umano in condizione di dolore possa dare spunti, indicazioni e luce a tutti noi. Come Teatro dei Venti lavoriamo assiduamente, da vent’anni, nel contesto complesso del carcere. Questo perché siamo convinti che le pratiche artistiche e creative all’interno di questi luoghi possano sviluppare possibilità di miglioramento, crescita e sviluppo».
Proprio in merito alla vostra attività nelle carceri, i bozzetti dei costumi e le macchine teatrali di «Don Chisciotte» sono stati realizzati da un detenuto. Qual è il valore di questa vostra azione?
«Per noi questo presidio in carcere è molto importante, nel tempo abbiamo creato qualcosa che non ha solo a che fare con la realizzazione di uno spettacolo, ma anche con professionalità legate al teatro dal punto di vista tecnico: scenografi, macchinisti, tecnici luci, audio… quindi stiamo dando a queste persone la possibilità di apprendere e fare poi un percorso pratico. Il tutto grazie anche a un bando della Comunità Europea. Francesco, che ha realizzato i bozzetti di questo spettacolo come di altri, si è anche iscritto all’accademia di belle arti e sta facendo assieme a noi un percorso diverso da quello che l’ha portato in carcere, nuovo, spero definitivo».
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