giovedì 12 Settembre, 2024
di Giovanna Venditti
Si conclude sabato nell’Anfiteatro delle Terme di Levico la rassegna dell’Agosto Degasperiano a tema «Amare il nostro tempo», ciclo di eventi per mettere al centro del discorso pubblico valori importanti, capaci di durare nel tempo e orientare l’azione. Chiuderà il percorso Daria Bignardi con la presentazione del suo ultimo libro «Ogni prigione è un’isola».
In caso di maltempo l’evento si svolgerà al Teatro parrocchiale di Levico Terme.
Daria Bignardi sarà ancora protagonista in Trentino, domenica alle 14.30 al Poplar Festival, Area Cult, a Piedicastello.
Le testimonianze raccolte nel volume della scrittrice e giornalista evidenziano la drammaticità del contesto: Il carcere è come la giungla amazzonica, come un Paese in guerra, dove la sopravvivenza è la priorità e i sentimenti primari sono nitidi. Da San Vittore a Santa Maria Capua Vetere, da Bollate a Modena, «Ogni prigione è un’isola» attraversa l’Italia penitenziaria che Daria Bignardi, da attiva volontaria da circa trent’anni, conosce molto bene. L’autrice ha incontrato ladri, rapinatori, spacciatori, mafiosi, terroristi e assassini, ha avuto modo di confrontarsi con la giustizia, dialogando con agenti di polizia penitenziaria, giudici e direttori di istituto. Nel 2020, all’inizio della pandemia, ha catturato con una telecamera le urla dei detenuti di San Vittore durante le rivolte nelle carceri italiane.
Dopo anni di conversazioni e testimonianze, Daria Bignardi ha deciso di condividere le sue esperienze e raccontare questo mondo. Per farlo si è ritirata sulla piccola isola di Linosa per dedicarsi alla scrittura.
«Scrivere un libro è un lavoro solitario, molto più intimo, che va in profondità e in cui lavori il tuo materiale, la scrittura, con più ossessività. Una delle cose bellissime dello scrivere è la possibilità di riscrivere una pagina cinquanta volte, finché non trovi la sua voce, che tu sai qual è, la senti, e lavori finché non trovi il ritmo giusto». esordisce l’autrice.
Lei si è avvicinata al mondo del carcere molto giovane e da allora non ha smesso. Cosa l’ha portata a scriverne?
«Ho sentito che era arrivato il momento di condividere le storie, le emozioni e gli incontri fatti in questi anni».
C’è una storia umana di detenzione che l’ha particolarmente colpita?
«La prima con la quale sono venuta in contatto tanto tempo fa: quella di Scotty Moore, un allora mio coetaneo detenuto in un braccio della morte americano, col quale ho corrisposto per molti anni. Aveva commesso una rapina quando era minorenne e tossicodipendente. Nell’ultima lettera mi scrisse di aver accettato la vita e la morte che gli erano toccate».
Ha dovuto autocensurarsi nel parlare di un tema così delicato?
«Non direi, no. Ho raccontato con sincerità tutto quello che ho visto».
Ogni prigione è un’isola… In quali altre prigioni reali e metaforiche viviamo?
«Le nostre paure, le dipendenze, i legami tossici, le malattie, i condizionamenti e le ingiustizie sono in qualche modo prigioni anch’esse».
Il significato profondo di «solitudini affollate»?
«Dove ci sono muri è più facile che affollamento e solitudine convivano. Oggi le galere – ancor più di dieci, venti, trent’anni fa – sono piene soprattutto di persone povere e disgraziate. Fuori, così come dentro, ci sono molti più poveri e molte più persone con problemi psichiatrici e di dipendenze, e parecchi di loro finiscono in quella che è diventata – uso la brutta definizione che adoperano, a ragione, gli addetti ai lavori – una discarica sociale».
Lei in un’intervista ha detto che «in carcere ti sembra tutto più chiaro, più nitido». Come possiamo calare questa consapevolezza nella realtà quotidiana?
«Succede in molte situazioni drammatiche ed estreme, come le guerre, di vedere più chiaramente ciò che conta. In prigione c’è la vita com’è, fatta di dolore, ingiustizia, povertà, amore, malattia, morte, amicizia, rimpianto di una felicità e desiderio di libertà».
Quali fragilità caratterizzano il nostro tempo?
«Sono talmente tante: le povertà, le malattie psichiatriche, la solitudine sono le prime che mi vengono in mente».
Il carcere non porta voti. Come coinvolgere la politica sul tema?
«Questo è un tema abbastanza disperato, proprio perché il carcere non porta voti».
Cosa le appare interessante della figura di De Gasperi, che ha anch’egli vissuto il carcere?
«Il suo alto profilo e l’integrità della sua figura politica che oggi appare così difficilmente replicabile».
Partendo dall’anello più fragile della società, come chiudere l’Agosto Degasperiano? Quale messaggio per il Trentino?
«Oggi i miei pensieri sono per Youssef Barsom, il diciottenne egiziano morto bruciato a San Vittore. Era arrivato in Italia pochi anni fa dopo aver subito traumi e violenze, aveva problemi psichiatrici, non doveva stare in carcere. Era un ragazzino, solo e fragile».