Cultura
martedì 15 Ottobre, 2024
di Carlo Martinelli
Ma come? E Murakami, Rushdie, Houellebecq, DeLillo? Possibile che questi cervellotici di svedesi per il premio Nobel della letteratura debbano sempre tirare fuori dal cilindro emeriti sconosciuti? Chi, l’altro ieri, avesse avuto la (s)ventura di aggirarsi nelle sempre infide paludi dei social, avrebbe verificato una volta di più come l’irresistibile tentazione italica di commentare a vuoto, a caso, per il gusto di, senza sapere, informazioni zero, trovasse conferma di fronte ai commenti per il Nobel appena assegnato.
Sì, ha vinto Han Kang, Corea del Sud. Ci sta che molti non l’abbiano mai sentita nominare, ci sta che non molti l’abbiano letta. Proprio per questo un prudente silenzio sarebbe benvenuto, in questi casi. Perché la gentile signora in questione – nata nel 1970, «aria timida, né alta né bassa, capelli a caschetto né lunghi né corti, scarpe nere, le più banali che si possano immaginare e quel suo modo di camminare, né veloce né lento, a passi né grandi né piccoli»: così la ricordano quando venne a Roma a presentare il suo primo libro in italiano – è tutt’altro che una sconosciuta. E il fatto che a lei sia andato il Nobel dovrebbe magari costituire una salutare presa d’atto: la letteratura non ha nazione, men che meno continenti e ignora le frontiere. Eurocentrici e occidentali tutti, facciamocene una ragione: Africa, Asia, Oceania, America del Sud sono, letterariamente parlando, vive, vivissime, pulsanti. L’universo dei buoni romanzi e delle preziose poesie – a proposito: Han Kang è poetessa prima che narratrice, ha debuttato nel 1993 con cinque poesie sulla rivista «Letteratura e società» – per fortuna esiste e resiste alla banalizzazione dei tiktoker e al bullismo in formato X.
Vivaddio, dalle nostre parti Han Kang non è un’autrice che si è autoprodotta i libri. Degli otto romanzi che ha finora scritto ben quattro sono già stati pubblicati da Adelphi, mica bruscolini. Quando nel 2016 divenne famosa dopo aver ottenuto il Man Booker International Prize per «La vegetariana», la casa editrice di Calasso (che molto la stimava e ammirava) lo tradusse subito. Hanno fatto seguito «Atti umani» (2017), «Convalescenza» (2019) e «L’ora di greco» (2023).
Di più: in tempo per essere amorevolmente circondato dalla trionfante fascetta «Premio Nobel 2024», tra poche settimane Adelphi pubblicherà (per i dietrologi: l’annuncio è di qualche mese fa, precede di chilometri il Nobel) «Non dico addio» (traduzione di Lia Iovenitti), l’ottavo romanzo di Han Kang, apparso nel 2021, in Francia pluripremiato. «Le Monde» ha scritto che è probabilmente il romanzo migliore della scrittrice. Nella trama le tracce del suo percorso letterario, forte di una prosa intima e visionaria che si ritrova in ogni scritto. È una sorta di arduo e doloroso viaggio d’inverno, quello della protagonista, Gyeong-ha, quando accetta la pressante richiesta dell’amica Inseon, ricoverata in ospedale, di andare sull’isola di Jeju per dare da bere al suo pappagallino, che è rimasto da solo e rischia di morire. A Jeju la accoglie una tempesta di neve, e poi un sentiero nel buio dove si perde, cade e si ferisce. Ma niente la ferma. Sa che deve assolutamente raggiungere la casa dell’amica e salvare il pappagallo. Quando arriverà, potrà soltanto seppellirlo, scavando a fatica nella neve e nella terra gelata. Poco dopo, però, lo vedrà di nuovo svolazzare nelle stanze buie e fredde e insieme comparirà anche l’amica, che aveva lasciato in ospedale. Sotto la sua guida, Gyeong-ha compirà un altro viaggio: una discesa agli inferi, questa volta, nella storia della famiglia di Inseon e di uno dei massacri più infami che la Corea abbia mai conosciuto – quello perpetrato, tra la fine del 1948 e i primi mesi del 1949, ai danni di trentamila civili accusati di essere comunisti. Ancora una volta si viene trascinati dalla virtuosità narrativa di Han Kang, dalla sua scrittura al tempo stesso lirica e implacabilmente precisa, nell’itinerario onirico e memoriale di Gyeong-ha, dove la frontiera tra visibile e invisibile sembra svanire. Ma dove non svanisce la realtà atroce della violenza.
L’Accademia di Stoccolma l’ha premiata per la sua prosa poetica e sperimentale, riconoscendole la capacità di sottrarre all’oblio vicende collettive e di trasformare in arte i traumi di un popolo. Così ne «La vegetariana», romanzo «terribile e bello» nella definizione di Loredana Lipperini, dove una donna che sceglie di non mangiare carne lancia interrogativi provocatori e disturbanti, consapevole del legame profondo tra corpo e anima. Così in «Lezioni di greco», dove un’altra donna che ha perso la parola è strappata dalla solitudine dall’intensità di un dialogo con un insegnante o in «Convalescenza», dove una figura sfugge a un’esistenza arida trasformandosi in pianta.
Certo, pagine non facili, urticanti, ultimative. Eppure di raffinata eleganza, capaci di spingere alla riflessione, purché si accetti la sfida. Altro che scrittrice sconosciuta.
Semmai, conosciuta da una cameriera di Padova. Già. Anche Giulio Mozzi, scrittore raffinato e lettore indefesso, ha commentato in rete. Così: «Ed è arrivato anche il Nobel. Per la gioia degli allibratori, un nome inatteso. A me fa piacere che si tratti di una scrittrice nata nel 1970. Credo che un premio conferito nel fiore degli anni sia più sensato di un premio “alla carriera”. Sarà contenta anche la cameriera di un ristorante di Padova, ottima lettrice, che anni fa mi parlò con entusiasmo de “La vegetariana” di Han Kang».
Viva la cameriera che aveva visto il Nobel per tempo…
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