L'INTERVISTA
sabato 19 Ottobre, 2024
di Anna Maria Eccli
Nell’aria un vago profumo di trinciato per pipa; seguiamo il dottore lungo il corridoio-galleria tappezzato di certificazioni e onorificenze: la laurea bolognese in Medicina del 1962, il cavalierato per merito conferito da Giuseppe Saragat ed Emilio Colombo, l’ufficialità dello stesso firmata da Giovanni Leone e Aldo Moro, la Gran Croce della International Business Corporation assegnata per «le non comuni doti umane e qualità professionali»… Siamo a casa di Giorgio Casti, medico internista appena entrato nel suo 88º anno d’età (lo scorso 4 ottobre); di anni febbrili, trascorsi inanellando soddisfazioni, fatiche, successi in ambito sportivo (barca, sci, moto… possiede una California d’epoca) e certamente anche qualche dolore, ne ha molti da ricordare. Con due premesse: non essere mai venuto meno ai propri principi e amare profondamente i propri malati. Personalità decisa, intellettualmente molto dotata, lontana dai magheggi del politically correct, se ne infischia delle etichette e trova da sempre la propria libertà nella trasparenza. Da ragazzino l’indole vivace gli ha guadagnato qualche bella cinghiata da parte di papà, come quando a 13 anni tornò a casa alle tre di mattina, con le braccia piene di bottiglie vinte ad una festa danzante. «A un certo punto, ma ero ancora piccolo, mia madre mi trascinò dal parroco per farmi benedire, tante ne combinavo; mordevo le orecchie alle cugine, fumavo i rametti di sambuco nel cortile delle scuole elementari di Lizzanella, insomma, ero faticoso». Nulla faceva presagire la futura vita di studio e impegno. Per 25 anni è stato anche nel direttivo dell’Ordine dei Medici provinciale. Padre di Alessandro e Francesco, avuti dalla moglie Gigliola Bottura, è ancora appassionato della sua professione ed è molto lontano dall’appendere al chiodo lo stetoscopio. È il disobbediente figlio d’un tappezziere straordinario, un artista che ha fatto la storia dell’arredamento roveretano e trentino (arte che sta magistralmente portando avanti il fratello del medico, Antonio); papà Francesco era, scherzi del destino, segretario della sezione del Partito Comunista di Lizzanella, mentre il dottor Casti non ha mai fatto mistero delle sue simpatie “a droite”, che però non gli vietano di sostenere Medici Senza Frontiere, per dire quando i valori sono concreti. Al personalismo e alla furbizia dei politici non riserva buone parole. Laureatosi a soli 24 anni, nella vita si è sempre spartito tra studio, ambulatorio, analisi di vetrini e, all’occorrenza, imbottiture con ago e spago, nel laboratorio di papà. Vita di corsa, la sua: iscritto in seconda elementare a 6 anni, «già medico prima di essere medico» prestava servizio prima della laurea e dovette affrettare persino il ritorno a Rovereto quando morì il padre, proprio mentre era in procinto d’ottenere la libera docenza universitaria. La «voglia di velocità» lo rende sintetico e pertinente persino nel suo raccontarsi; oggi va da un congresso internazionale all’altro ed è aggiornatissimo: «Ho l’abitudine di intervenire sempre – dice – ma per fare questo bisogna prepararsi, sapere discutere, come ho sempre fatto nell’esercizio della mia professione».
Dottore, ma quante attestazioni di merito possiede?
«Molte, ma la più bella è la targa che mi hanno consegnato i miei colleghi nel 2006, per i 50 anni di servizio. A questa tengo davvero tanto, è il riconoscimento per me più prezioso. Credo che mi vogliano tutti bene».
Tra lei e la sua professione c’è una corrispondenza perfetta.
«Faccio ambulatorio tutte le mattine, al pomeriggio ho visite e se sono libero sto qua dentro a studiare. Ho tutta l’informatica necessaria ai tempi. Vede… finché ero medico della mutua avevo pochissimo tempo libero e lo sfruttavo per i miei hobby, che erano tanti. Pensavo che, una volta in pensione, avrei avuto molto più agio per divertirmi. Invece, sa come è andata a finire? Che non ho più praticato alcuno sport perché da subito ho sentito di non volermi allontanare dalla mia professione».
Comunque, lei è stato un grande sportivo.
«Sì, mi piacevano gli sport d’acqua e andavo spesso al lago con la barca, ma ero anche appassionato di moto e di automobilismo. Ho cambiato una quindicina di fuoristrada. Ho fatto gare di sci, vincendone qualcuna; ero iscritto alla Federazione Italiana Sport Invernali e ho affrontato per 10 volte il Gigantissimo, la gara di slalom più lunga del mondo che, sulla Marmolada, va da Punta Rocca, a Rocca Pietore. A me piaceva la velocità, perché ho nel sangue il dinamismo sardo».
Già, parliamo delle sue origini sarde.
«Sono nato a Lizzanella, ma sono di origine sarda e in Sardegna ho tutti gli amici, i parenti. Mio padre Francesco era tappezziere, aveva sposato una roveretana, Maria, da cui sono nati tre maschi. Io ero il più anziano, poi c’era Sergio che, è venuto a mancare il mese scorso, e Antonio che porta avanti la professione paterna. Nel laboratorio ho lavorato anch’io».
Suo padre era “un grande” tappezziere!
«Sì, aveva imparato da un grande dell’arredamento, l’austriaco Joseph Hofbauer. Lo accompagnavo alla Mostra dell’Artigianato, quando Rovereto la organizzava in Via Tommaseo, e lì io ho conosciuto gente come Alcide Degasperi e Aldo Moro».
Cosa ricorda della sua giovinezza?
«Il mio primo studio era in Via Segantini, a casa dei miei genitori. Avevo ricavato l’ambulatorio da un locale al piano rialzato ed ero stato immediatamente caricato di malati. Dopo una settimana dall’apertura il numero dei pazienti che la mutua concedeva era già raggiunto. Posso dire di aver sempre fatto il medico, anche quando non lo ero, perché mentre frequentavo l’università ero sempre nella clinica dell’ateneo; la mattina a lezione, il pomeriggio a fare il giro dei malati in clinica Sant’Orsola, con il primario e il suo aiuto, la sera ad analizzare vetrini che poi il professor Ugo Butturini portava ai congressi mondiali».
Poi cosa successe?
«Che morì mio padre e da primogenito qual ero sono diventato capofamiglia. Dovevo essere di sostegno alla famiglia, anche solo simbolicamente. Così, scendevo in macchina fino a Bologna tutti i giorni per ottenere la specialità di Internista. Partivo la mattina presto e alle 13 ero di ritorno; mangiavo, aprivo il mio ambulatorio e poi quello dei miei colleghi in ferie. Questo per anni. A Bologna avevo anche avviato il corso di Medicina Legale, avevo sostenuto già tre quarti degli esami, ma alla fine ho dovuto mollare. Però, quello che ho studiato mi è servito moltissimo per districarmi dal punto di vista della burocrazia sanitaria, ho infatti fatto parte del Consiglio dei Medici e trattavo con la Provincia sui contratti. Comunque, appena specializzato, ho lasciato lo studio al piano rialzato di Via Segantini e ne ho aperto uno in Via Rossaro».
Una lunga e intensa vita da medico sarà caratterizzata da qualche aneddoto.
«Certamente, appena laureato ebbi subito un’esperienza forte, feci nascere due gemellini in fondo alla Valle di Ledro. Bisogna pensare che, fino all’85, nelle condotte il medico lavorava 24 ore su 24, sette giorni su sette, e faceva di tutto; metteva a posto una gamba fratturata prima del trasporto in ospedale, curava il dente, faceva da ostetrico e da psicologo. Sempre nei primi anni di attività, un altro bambino aveva deciso di nascere durante la sostituzione d’un collega, questa volta a Terragnolo. La madre era primipara e il parto si preannunciava difficilissimo. Io sudavo le classiche sette camicie, mentre il padre mi preparava, allineate in file sul parapetto del terrazzo a balzo sulla valle, una serie di sigarette. Patimmo talmente tanto, la madre e io, che imposi ai due genitori di chiamare il neonato come me, Giorgio. E… la sa una cosa? Giorgio è andato in pensione mesi fa e mi ha mandato a salutare da suo figlio. Sì, penso proprio che la gente mi voglia bene. Poi, gliel’ho detto, ero medico “prima d’essere medico”. Già all’asilo lo dichiaravo e, dopo, ho sempre vissuto in mezzo a malati e medici. E anche se, effettivamente, la morte di mio padre sconvolse tutti i miei progetti, rifarei tutto da capo».