L'intervista

martedì 22 Ottobre, 2024

Il regista Veronesi: «Valanga Azzurra, per intervistare Thoeni ho dovuto farlo bere»

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Stasera la proiezione del docu-film a Trento. Il regista: «Sono uno sciatore mancato. È l'unico sport su cui avrei potuto fare un film»

Giovanni Veronesi a 62 anni è scivolato sui ricordi – i suoi, e quelli di un’epoca e di una generazione – come scivolava sulla neve dell’Abetone da ragazzino: leggero e libero da schemi. Infatti, il suo docu-film «La Valanga Azzurra», presentato in anteprima sabato scorso alla Festa del Cinema di Roma e stasera (alle 20.30) a Trento al Cinema Teatro Nuovo Roma, ripercorre la straordinaria parabola della nazionale italiana di sci alpino degli anni ‘70 capitanata da Gustav Thoeni e Piero Gros. Quella squadra vinse cinque Coppe del mondo e numerose medaglie olimpiche e mondiali: Veronesi, assieme agli autori – il giornalista Lorenzo Fabiano, firma del nostro giornale, Domenico Procacci (che con la sua Fandango è anche il produttore del docu-film) e lo scrittore premio Strega Sandro Veronesi, fratello del regista, e la consulenza di Luca Rea – la racconta attraverso uno stile narrativo fresco, brillante, colloquiale, a tratti autobiografico, lontano dal solito cliché un po’ ingessato e ampolloso di molte produzioni di story-telling. Veronesi ci mette il sentimento. Da ragazzino era una promessa dello sci e ammirava e anelava la Valanga Azzurra. Così del documentario è anche voce narrante e l’intervistatore dei suoi idoli di allora. «Con questa produzione abbiamo voluto omaggiare a una squadra leggendaria che non viene mai ricordata abbastanza, ma personalmente ho anche chiuso un cerchio con la mia vita parallela, quella dei sogni, dei miti, delle aspirazioni mancate» svela il regista toscano, noto per la trilogia di «Manuale d’Amore», «Che ne sarà di noi», «Italians» e il recentissimo «Romeo è Giulietta» (da sceneggiatore invece ha legato il suo nome a Francesco Nuti e al primo Leonardo Pieraccioni).
Lei sembrava avviato a una buona carriera da sciatore, prima di un brutto incidente durante una gara, e in quegli anni ammirava e sognava di essere un giorno come la Valanga Azzurra. Il docu-film è anche una sorta di autoanalisi?
«Certo, del resto non avrei mai fatto un documentario per nessun altro sport e mai ne farò. Sono un regista di cinema, non un documentarista, infatti a Valanga Azzurra ho comunque voluto dare un taglio diverso da quello classico documentale. Mi metto in gioco, porto dentro il mio mondo e il mio privato, altrimenti non avrebbe avuto senso realizzare l’opera. Thoeni, Gros e gli altri erano i miei miti e lo sono rimasti per tutta la vita. Ma in questa autoanalisi non c’è mai ombra di rimpianto, so che non sarei diventato un campione, anzi. E poi ho avuto successo nel cinema e la vita è stata generosa con me. Ma, sa, allora, quell’incidente fu come un sogno che si era interrotto».
Non a caso a ognuno dei componenti di quella squadra dice: «Avrei voluto essere te».
«Non è piaggeria, è una forma narrativa per dire: “Io da bambino volevo essere tutti voi, volevo far parte della vostra famiglia”. Io tifavo la Valanga Azzurra in quanto tale, non il singolo. Poi chiaramente Gustav e Piero erano i portabandiera, ma a me piacevano anche Stricker, De Chiesa, Radici. Ero un tifoso vero di quella squadra leggendaria».
Che lei ha ripescato dal dimenticatoio. Si scorda tutto troppo in fretta?
«Tanti miti non vengono mai ricordati a sufficienza, non solo dello sport. L’altra sera proprio coi ragazzi della Valanga Azzurra – io li chiamo ancora ragazzi anche se hanno più di 70 anni – pensavo a Prince, uno dei più grandi musicisti degli anni ‘80, che non viene celebrato come Michael Jackson o Madonna. Purtroppo, le persone si ricordano di uno in base a quanto era mediatico. Prenda Tomba, lo conoscono anche i ragazzini, ma per il personaggio che era, mentre non hanno reale contezza del campione che è stato. In questo contesto uno come Gustav Thoeni, che è la persona più introversa e meno mediatica della storia, facilmente viene messo da parte. Messo da parte, non dimenticato, Thoeni infatti non è mai stato dimenticato dalla gente che ha più di 50 anni».
È infatti bastato che lo riportaste alla ribalta per concedergli standing ovation ogni sera…
«Guardi, noi stiamo facendo il tour e ogni sera cambiamo città e cinema, dovrebbe vedere il rispetto che c’è per Thoeni, quel rispetto io l’ho visto solo per Mattarella, Gustav è un’autorità come il Presidente della Repubblica. Dalla platea si alzano tutti in piedi per omaggiarlo, applaudono e non smettono. Dobbiamo intervenire altrimenti non riusciamo più ad andare avanti».
Adesso è facile dirlo coi cinema pieni, ma non era scontato avere successo riproponendo le gesta di campioni di cinquant’anni fa. Ha avuto coraggio, sa?
«Però sono onesto, non mi aspettavo questo successo. È pari a quello di un film ed è strana come cosa perché i documentari per noi del cinema vengono dopo. Invece in questo caso, sia dal punto di vista mediatico che di affluenza e di gradimento del pubblico, è al pari di “Romeo è Giulietta”. È bastato risvegliare le memorie di chi ha vissuto quell’epopea e la gente ci ha riversato un affetto clamoroso».
Il documentario ha momenti anche divertenti, di pure commedia all’italiana, per esempio quando va da Thoeni per intervistarlo. Decide di farlo bere per vincere la sua riservatezza. Ma lui per ore le parla di tutto tranne che di sci…
«Gustav è una persona diffidente, anche giustamente. È da cinquant’anni che lo intervistano e gli fanno le stesse domande, io dovevo cercare di prenderlo da un’altra parte, avvicinarmi a lui come nessuno prima aveva fatto. Così ho usato la via dell’alcool che funziona quasi sempre (Veronesi ride, ndr). Con Francesco Nuti siamo diventati amici dopo una sbornia assieme. Con Thoeni nessuna sbornia, ma siamo rimasti lì come fossimo sodali, senza l’ansia di fare l’intervista, e poi tutto è venuto fuori naturalmente».
Lei Thoeni, Gross e gli altri li chiama ancora ragazzi. «Gli eroi sono tutti giovani e belli», come cantava Guccini?
«Il mito non invecchia mai, i miti e i sogni non invecchiano, ti accompagnano fino alla fine. I miti sono la nostra vita parallela dei pensieri, dei sogni, dei desideri, che anche se non vengono realizzati e rimangono tali hanno una funzione vitale perché ti fanno restare giovane con la testa e il cervello. Questo soprattutto per un artista è fondamentale».
Oggi lo storytelling va di moda. In tv si racconta sempre di più il passato. I campioni di oggi emozionano meno?
«Diciamo che i campioni di adesso vengono consumati in fretta e in modo clamoroso. C’è più inflazione di sport, eventi, competizioni. Ma credo che alla fine non sia una questione di epoca, ma di personaggi, del carisma e delle emozioni che sanno o non sanno trasmettere. Succede oggi e succedeva anche ieri. Ci sono campioni immensi nella storia dello sport di cui ci si ricorda poco perché non emozionavano, erano macchine da guerra, fucili a ripetizione, ma non creavano l’epica».
Chi la emoziona oggi?
«Sofia Goggia, lei è una campionessa romantica, sa emozionare perché scia pericolosamente, ti fa sobbalzare il cuore a ogni curva, si butta giù in pista come faceva Zeno Colò. Lei “buca” per questo motivo: oltre al talento ha questa capacità emozionale che altri o altre non hanno. Ed è mediatica, mai banale. Sì, la Goggia è una di quelle che tra 20-30 anni saranno raccontate. Non c’è vero racconto nella vittoria perfetta, l’epica nasce dal virtuosismo del gesto, vedi il Maradona che segna scartando sei uomini contro l’Inghilterra a Messico ‘86, dalla spregiudicatezza e da una dose di incoscienza del personaggio».
Quindi Sinner la emoziona meno?
«Sinner è un grandissimo giocatore, fantastico, ma è una macchina da guerra, è perfetto, quindi può emozionare meno di Nadal che gridava, si faceva male, aveva un temperamento viscerale nei confronti dello sport. Come Tomba, che teneva incollato un Paese davanti alla tv, e poi era viscerale, guascone, estroverso, imperfetto».