L'intervistatore
domenica 27 Ottobre, 2024
di Francesco Barana
Narciso, eccome. «Scrivi pure presuntuoso, del resto è un atto di presunzione pubblicare un’autobiografia. Ma se non la scrivi a 80 anni, quando la scrivi? Da morto?», se la ride Claudio Sabelli Fioretti, in libreria con il suo ultimo libro «Amascord» (Compagnia editoriale Aliberti), un divertente, a tratti spassoso, autoritratto nel quale – con il pretesto di raccontare i suoi quasi 60 anni nel giornalismo – ripercorre le vicende più bizzarre cui ha preso parte insieme ad alcuni dei personaggi italiani più conosciuti e influenti.
In «Amascord» c’è tutto del giornalista di Vetralla, che vive a Lavarone, anche nella scrittura: linguaggio fresco, ritmo incalzante, humour, leggerezza. Perché Sabelli è narciso, ma compensa con l’autoironia, il cazzeggio e l’antiretorica: «Tutti dicono che vincono, io ho sempre perso. Ho un sacco di rimpianti e sono stato licenziato più volte». Pausa. «Solo nelle interviste ho sempre vinto io» puntualizza. Del resto, lo scrive pure nel quarto di copertina: «Le mie interviste sono molto belle, le più belle in circolazione».
Per il lettore che non lo sapesse, facciamo un passo indietro.
Sabelli Fioretti è stato tante cose, direttore di Sette e della rivista satirica Cuore («Ho lavorato due anni e mezzo gratis a forza di querele» ricorda), firma dei tre settimanali più importanti (L’Europeo, Panorama e L’Espresso) e di Corriere della Sera, La Stampa e Repubblica, della quale è stato pure tra i fondatori, salvo poi andarsene facendo incazzare Scalfari. E, con Giorgio Lauro, lo abbiamo ascoltato per anni in radio a «Un Giorno da Pecora». Ma il nostro è noto, appunto, per le sue «600-700 interviste, non ricordo di preciso» chiosa. Da Berlusconi a «Un Giorno da Pecora»: «Gli toccai i capelli per sapere se erano veri, gli chiedemmo se era gay e provammo a mettergli le manette. Mi diede del pervertito»; a Carla Bruni: «Splendida, mi toccò davanti a tutti. Sudai»; passando per Cossiga «si fece intervistare in mutande», Andreotti, Oriana Fallaci «che mi sequestrò a casa sua per quattro giorni». Allora mettetevi voi nei panni di chi scrive, a cui tocca l’ingrato compito di intervistare l’intervistatore per eccellenza.
Sabelli Fioretti, lo so che gonfio ancor di più il tuo ego, ma sono in difficoltà: intervistarti è come voler mettersi a giocare con Maradona.
«Allora parliamo tanto, a lungo. Le belle interviste riescono così: più parli con uno e più gli tiri fuori qualcosa di interessante. E se svicola, tu gli chiedi la stessa cosa due, tre, dieci volte. E se ancora non risponde, quella è già una risposta. La quantità e importante come la qualità».
Magari non sequestrarmi quattro giorni come fece con te la Fallaci…
«A casa sua, a Greve del Chianti. L’intervistai nel cucinone: lei, mentre parlava ad alta voce, lo percorreva a grandi falcate, fumando. Parlò ininterrottamente per due giorni. Alla mattina del quarto giorno uscii provato».
Tu hai spesso strappato «confessioni» da chi non t’aspetteresti…
«Maria De Filippi, in genere molto riservata e austera, mi rivelò che un alto dirigente Mediaset, un signore distinto, sposato, le telefonò per dirgli: “Maria, ma sai che hai due belle bocce?».
Sandro Bondi lo hai fatto quasi piangere…
«In quel periodo lui era lo scudo umano di Berlusconi. Lo incontrai ad Arcore, si era comprato casa lì vicino pur di stare vicino al grande capo. Mi fece vedere il famoso mausoleo dove Berlusconi aveva assegnato le tombe ai suoi amici e ai collaboratori più stretti: appena gli feci notare che non c’era la sua, mi rispose con enorme tristezza, quasi piangendo. Mi piacque la sua tenerezza».
A te dicono cose che ad altri non direbbero mai. Come fai?
«Come ti dicevo, occorre parlare tanto, io registro almeno due ore di conversazione. E prima devi informarti e leggere il più possibile su chi andrai a intervistare. Poi ci sono dei trucchi…».
Dimmi.
«L’empatia, o meglio, la finta empatia».
Questa è interessante. Spiega, spiega…
«Se intervisto un romanista, sono romanista anch’io. Se è uno di destra, divento di destra io stesso. Così chi hai davanti pensa che tu la pensi come lui e si lascia andare. Poi c’è un’altra furbata: faccio rileggere sempre le interviste».
Per molti colleghi è un tabù…
«Eh sì, ma se sa che potrà rileggerla, l’intervistato si sentirà più sicuro e tranquillo. Io poi gli mando davvero il pezzo…».
E…
«Se hanno obiezioni ne discutiamo. Ma in genere si complimentano, dicono che li ho migliorati».
E tu gongoli…
«Mi dicono ‘non pensavo di essere così bravo’. Ma sai perché? La scrittura di un’intervista è un processo artificiale, come il vino buono. L’intervista va lavorata, devi darle ritmo, è un ‘taglia e cuci’ rispetto al parlato registrato. Così la migliori. E facendola rileggere, la migliori rispettando la volontà dell’intervistato e la veridicità delle risposte».
Qualcuno si sarà pur incazzato, no?
«Tre o quattro, su 700 interviste. È successo invece che qualcuno non si riconoscesse…».
L’avrai mandato al diavolo…
«No, gli suggerivo di cercarsi un buon analista».
Però non hai mai accettato censure preventive…
«Mai, altrimenti ciao e arrivederci. Vittorio Cecchi Gori mi chiamò che ero in autostrada, stavo andando da lui, mi disse che non voleva questa e quell’altra domanda. Tornai indietro. Se uno è intelligente sa come eludere una domanda, non ti pone un veto».
Alain Elkann lo mollasti sul divanetto del ministero della Cultura…
«Era consulente di Sgarbi. Non gli piacevano le domande e allora me ne andai. Mica è obbligatorio farsi intervistare da me».
Eppure, nel tuo periodo di Sette, correvano da te. Dici che volessero risparmiare sullo psicanalista?
«Questa è buona. O magari per un istinto al cupio dissolvi, della serie: cosa posso fare di sbagliato nella vita se non farmi intervistare da Sabelli Fioretti? La verità è che in quegli anni offrivo una grande visibilità. Poi c’è chi si prestava per puro spirito agonistico, vediamo chi vince. Ho sempre vinto io».
Scalfari si offese a morte con te…
«Me ne andai da Repubblica. Me ne pentii quasi subito, così lo feci chiamare da Gigi Melega, il suo caporedattore, dicendogli che gli chiedevo scusa e sarei venuto a Roma a piedi pur di tornare. Scalfari disse “Neanche morto”. Era permaloso come pochi. Ci rimasi male».
Ti vendicasti anni dopo…
«Sul Fatto Quotidiano pubblicai un aneddoto di quando scambiò il generale Dalla Chiesa con il Papa. Fu una cattiveria, lo ammetto».
Con Carla Bruni sudasti…
«Vorrei vedere te. La incontrai al Café De Flore a Parigi, le chiesi se la infastidiva il fatto che le modelle nei backstage girassero quasi nude e si facessero toccare dagli stylist. Mi rispose cominciandomi a toccare davanti a un sacco di gente».
Berlusconi?
«Venne in radio accompagnato da 60 persone tra addetti stampa, scorta, medico, amici e parenti. Lo vidi solo per l’intervista in diretta, né prima né dopo, ma si comportò meravigliosamente, e te lo dice uno che non aveva alcuna simpatia per lui. Lo so di essere presuntuoso, ma credo che quella sia la più bella intervista mai fatta a Berlusconi. Ci fu solo un problema».
Quale?
«Lo inseguivamo da mesi, finalmente pensavamo di aver fatto uno scoop pazzesco e che ti succede? Quel giorno si dimette Ratzinger, primo Papa da secoli a lasciare. Pensai che eravamo proprio dei coglioni sfigati».
A Elvira Serra del Corriere della Sera hai detto che non esiste un tuo erede. Non ti piacciono le interviste che leggi?
«Stefano Lorenzetto e Malcom Pagani sono due fuoriclasse. Togli loro, noto che molte sono fatte per mail. Le riconosci a occhio, hanno domande chilometriche e risposte ancor più lunghe, e non c’è mai un contradditorio, cioè la famosa “seconda domanda”, quella con la quale incalzi l’interlocutore».
E la satira in che stato di salute è?
«Oggi vedo molto umorismo, penso alle parodie o imitazioni, ma poca satira. L’umorismo compiace il potente, la satira vera invece lo fa incazzare. Forattini che disegnava Spadolini con il pisello piccolo e poi riceveva dallo stesso Spadolini richiesta della copia originale, è la sconfitta della satira. La miglior risposta alla satira è la querela».
Ai tempi di «Cuore» ne hai fatto collezione. Le hai contate?
«No, ma ho contato i soldi. A Cuore ho lavorato due anni e mezzo gratis. Pazienza, quel giornale devi farlo solo così. Sono comunque sopravvissuto».
«Ho un caratteraccio» scrivi nel libro. Narciso, presuntuoso e…?
«Irrequieto. Non sto mai fermo e ho spesso ho fatto scelte avventate. Ho avuto tre mogli e due compagne, ho girato praticamente tutti i giornali, ho cambiato tante città».
E ti sei fermato a Lavarone.
«Dove, dici, potrei starmene tranquillo. Invece mi sono messo a fare uno spumante».
Hai un sacco di rimpianti, dici. Il più grande?
«Ho lasciato grandi giornali, sono stato anche direttore di Gente Viaggi e avrei potuto girare il mondo gratis, ma quel che mi ha fatto male è l’unica cosa per cui non ho colpe: la chiusura di Panorama Mese, di cui ero ideatore con Carlo Rognoni. Per me era il giornale più bello del mondo, fu chiuso dall’editore perché vendeva centomila copie. Oggi sarebbero tantissime».
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