L'intervista
mercoledì 30 Ottobre, 2024
di Paolo Morando
«Quando un procedimento penale, in fase di indagini preliminari, finisce sui giornali o sui media, nell’immaginario collettivo chi è sottoposto al procedimento, ossia l’indagato, da presunto innocente – come vuole la Costituzione – diventa subito un presunto colpevole. O persino un colpevole in attesa di giudizio». Ordinario di diritto penale a Bologna, avvocato in numerosi tra i processi che più hanno fatto discutere, Vittorio Manes sarà oggi a Trento, per presentare il suo ultimo libro «Giustizia mediatica» (il Mulino): alle 17 a Palazzo Geremia, su iniziativa dell’Ordine degli avvocati, dialogherà con il procuratore generale Corrado Mistri, Gabriella di Paolo della Facoltà di Giurisprudenza, Simone Casalini (direttore del quotidiano «il T») e Andrea de Bertolini, avvocato del Foro di Trento e consigliere provinciale del Pd. Manes parla anche di «diffuso pregiudizio colpevolista, amplificato dai media, in base al convincimento comune per il quale – come si usa dire negli Stati uniti – “if there’s smoke there’s fire”, quasi a dire che se c’è un procedimento penale ci sarà una qualche ragione. E questo pregiudizio di colpevolezza, in capo ai soggetti coinvolti, perdurerà anche se alla fine del processo l’esito non sarà la condanna bensì l’assoluzione, magari con pieno riconoscimento dell’innocenza o dell’estraneità ai fatti contestati».
La giustizia penale è diventata spettacolo: sulla stampa, in televisione, sui social. Come ci si è arrivati?
«Le vicende di rilievo penale suscitano sempre l’interesse della collettività, sia quando hanno ad oggetto casi di cronaca relativi a fatti di sangue o a reati di notevole gravità che destano particolare allarme sociale, sia quando hanno come protagonisti personaggi noti, o persone politicamente esposte, sia quando vedono la presenza particolarmente numerosa di vittime, o di vittime particolarmente vulnerabili: e sempre più spesso l’interesse collettivo si trasforma in attenzione mediatica, che recepisce e amplifica l’interesse collettivo, fungendo da cassa di risonanza delle emozioni collettive, ed esitando spesso in una spettacolarizzazione della vicenda processuale. In questi casi, la narrazione mediatica, con gli accenti sensazionalistici e colpevolisti che spesso la contraddistinguono, si accompagna alla narrazione processuale, sino a sostituirsi ad essa. Limitandomi ad un esempio, sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia si è sviluppata, nell’arco di quindici anni, una attenzione mediatica abnorme, che ha ampiamente sovrascritto i fatti e le imputazioni che erano oggetto del processo. E che è largamente sopravvissuta anche dopo che la Cassazione ha pronunciato una sentenza che ha definitivamente assolto i principali protagonisti – in primis il generale Mori, allora capo dei Ros – per non aver commesso il fatto».
Si può individuare un momento di svolta, e di non ritorno, in questa rappresentazione mediatica della giustizia? E si tratta di un fenomeno solo italiano?
«L’attenzione c’è sempre stata, perché la giustizia penale è altamente ansiogena, e da sempre magnetizza l’interesse collettivo. Basti pensare all’affaire Dreyfus, che divise l’opinione pubblica francese per molti anni, con grandissimo clamore mediatico. Ma negli ultimi anni vi è stato, a mio giudizio, un salto qualitativo, dovuto alla diffusione di una moltitudine di trasmissioni, talk show, salotti televisivi, programmi di inchiesta e docufiction, dove si inscena spesso un “processo parallelo” sui media, e alla diffusione sempre più incontrollata delle notizie e dei commenti di vicende penali nell’universo scomposto e informale dei social network. Non è un fenomeno solo italiano, ma è molto diffuso, tanto che di “processi paralleli” e “mediatici”, di “trials by media”, si discute ormai da tempo anche negli Stati Uniti, come in molti ordinamenti europei».
L’Italia è dunque irrimediabilmente malata di giustizialismo?
«La storia giudiziaria italiana – specie a partire da Tangentopoli – ha registrato una relazione sempre più stretta tra attività inquirenti e interesse dei media: e in taluni casi una vera e propria “alleanza mediatica” tra una parte della magistratura inquirente e gli organi di informazione, con l’effetto di enfatizzare le ipotesi di accusa prima che la loro fondatezza sia verificata nel processo, e nel contraddittorio tra accusa e difesa, e prima che sulle ipotesi si siano pronunciati i giudici. La credibilità attribuita alle ricostruzioni accusatorie, e l’autorevolezza morale accreditata ai titolari della funzione inquirente, amplificate dai media, contribuisce ad alimentare una aspettativa di punizione in capo all’opinione pubblica, e quello che lei definisce un atteggiamento “giustizialista”. Ma non è, anche questo, un fenomeno solo italiano: solo per fare un esempio, il processo Petrobras e gli scandali sulla corruzione politica in Brasile, che come noto sono arrivati al coinvolgimento del presidente Lula, hanno avuto cadenze molto simili alle indagini “Mani pulite”, generando analoghe distorsioni».
Quanto la responsabilità di questo stato di cose è da addebitare ai giornalisti? E quanto invece al loro pubblico?
«Questo stato di cose non è attribuibile all’una o all’altra categoria di soggetti, ma è piuttosto – a mio avviso – un problema culturale. L’informazione, il dovere di informare dei giornalisti e il diritto di essere informati dei cittadini sono valori primari, fondamentali in una società democratica. Ma sull’altro piatto della bilancia stanno valori non meno importanti e primordiali, come la presunzione di innocenza e il diritto al rispetto della vita privata e familiare, sui quali spesso la “mediatizzazione” e la “spettacolarizzazione” della vicenda processuale ha un effetto di cui purtroppo si rende conto solo chi ha la sorte – e la sventura – di vivere questa esperienza degradante in prima persona».
Non rischiano oggi gli stessi magistrati di diventare vittime di tale situazione, allineandosi in sostanza a una presunta «vox populi»?
«Sì, i magistrati giudicanti possano essere condizionati da un simile contesto, e dall’influenza della narrazione mediatica. Perché quando una vicenda è fatta oggetto di notevole attenzione da parte dei media, e si crea – come il più delle volte accade – un fronte colpevolista, il giudice non è più libero di decidere, ma nel decidere e nel pronunciare il verdetto di condanna o di assoluzione è chiamato a dire, al contempo, da che parte sta: se sta dalla parte dell’opinione pubblica, che si aspetta la condanna, o se sta dalla parte di imputati che l’opinione pubblica considera già colpevoli. E questo è molto pericoloso e preoccupante. D’altro canto, il giudice è la prima vittima della morsa mediatica, come testimoniano gli attacchi rivolti a magistrati che hanno avuto il coraggio di pronunciare assoluzioni che hanno deluso le aspettative dell’opinione pubblica e delle parti civili. La vicenda processuale del disastro di Rigopiano è uno dei tanti, dolorosi esempi di questa preoccupante deriva».
Gli attuali interventi della maggioranza politica, in termini restrittivi, non rischiano di minare il diritto di cronaca?
«Francamente non mi pare, mi sembra piuttosto che si stia cercando di introdurre dei freni alla disseminazione incontrollata di dati personali e sensibili raccolti con strumenti investigativi molto invasivi, come le intercettazioni telefoniche e telematiche o a mezzo trojan, e che non dovrebbero avere diffusione mediatica. Piuttosto, vi è da dubitare che questi freni siano sufficienti».
Nel suo libro parla di «sacralizzazione» della vittima: a che cosa fa riferimento?
«La vittima è l’altro grande protagonista del processo mediatico, ed è quasi diventato un “eroe contemporaneo”. Anche sulla vittima, infatti, si sviluppa subito una presunzione di credibilità, e le si attribuisce una autorevolezza morale ancor prima che il processo si sia concluso, accertando se la presunta persona offesa può dirsi davvero “vittima”, o meno. Certo in taluni casi non vi sono dubbi su chi sia la vittima e chi sia l’autore, sin dagli esordi della vicenda processuale, ma nella gran parte dei casi non è così: e la vittima viene celebrata e “sacralizzata” dai media prima dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Con un effetto perverso: perché se c’è una vittima, ci dev’essere per forza anche un autore, e un colpevole».
La gogna mediatica è una delle conseguenze su cui maggiormente si sofferma. Che cosa propone per mitigarla almeno in parte?
«Non ci sono, temo, rimedi salvifici. È un problema culturale: tutti i protagonisti della giustizia e dell’informazione dovrebbero aver maggior cura nel garantire i valori in gioco, primo fra tutti quel sommo valore che è la presunzione di innocenza: i professionisti dell’informazione dovrebbero aver sempre cura di evitare toni sensazionalistici, narrazioni colpevoliste, schiacciate sull’unilateralità dell’ipotesi accusatoria, e dare spazio sempre alla diversa prospettiva della difesa, avendo cura di salvaguardare la dignità e i diritti delle persone coinvolte. In gioco vi è una scelta di campo fondamentale tra la civiltà del diritto o la barbarie».