La protagonista
giovedì 7 Novembre, 2024
di Paolo Morando
Nata nel 1980 a Sarajevo, dove si è laureata in filosofia e sociologia, Lejla Kalamujić è una scrittrice pluripremiata e pluritradotta. È autrice delle raccolte di racconti «Anatomija Osmijeha» (2008), «Chiamami Esteban» (2015, pubblicata in Italia da Nutrimenti) e «Požuri i izmisli grad» (2021). Ha pubblicato anche tre opere teatrali in un libro intitolato «Šake pune oblaka» (2020), due delle quali, «Ljudožderka ili kako sam ubila svoju porodicu» e «Ugasimo svjetlo», sono state messe in scena al Teatro nazionale bosniaco di Zenica.
Lejla Kalamujić sarà oggi a Trento, alle 18 alla libreria Due Punti di via San Martino 78, in un incontro organizzato dall’associazione Lutva, composta da volontari che si occupano di far conoscere la realtà della guerra in Bosnia e della Bosnia di oggi, attraverso progetti negli istituti superiori (link al sito: https://www.lutva.org/), in collaborazione con Arcigay del Trentino e, ovviamente, con la libreria Due Punti. «Siamo molto felici di poter portare Lejla in Trentino – afferma Lucrezia Michelotti, volontaria di Lutva e vicepresidente di Arcigay del Trentino, che oggi presenterà il libro “Chiamami Esteban” e la sua autrice – perché racconta la Bosnia di ieri e di oggi in un modo che riesce a appassionare anche le nuove generazioni, in più tratta tematiche queer con grande naturalezza pur mantenendo l’adeguata complessità, e questo costituisce una novità nelle letteratura balcanica». Lejla Kalamujić si autodefinisce infatti «queer», termine ombrello utilizzato per indicare coloro che non vogliono avere un’etichetta. Il termine queer viene usato generalmente da una persona della comunità Lgbtq+ che non vuole dare un nome alla propria identità di genere e/o al proprio orientamento sessuale (ad esempio, se ci si sta interrogando sulla stessa), o più semplicemente non vuole precisarla.
«La guerra ha cambiato tutto – ha detto in un’intervista a Repubblica – ingenuamente, durante il conflitto ci siamo illusi che una volta terminato le cose sarebbero tornate come prima. Ma il dolore è rimasto, il trauma è rimasto. La salute mentale di molte persone è corrotta. Anche la mia. Inoltre, sono lesbica. Quando l’ho scoperto, negli anni ‘90, la cosa non era facile da ammettere né con me stessa né con le persone intorno a me».
«Chiamami Esteban» è un diario di viaggio emotivo che racconta la dissoluzione di una famiglia e di un Paese, l’ex Jugoslavia, la ricerca interiore della protagonista e la rivendicazione della propria identità. Sua madre è morta a ventidue anni, quando Lejla ne aveva due. Sulla scena sono rimasti suo padre, i quattro nonni, e una Sarajevo bucolica e misteriosa. Ma suo padre passa le notti in osteria, i nonni invecchiano, e il Paese in cui Lejla è nata all’improvviso si dissolve. La guerra è raccontata con gli occhi di una ragazzina, nell’impossibilità di tracciare una linea netta tra le parti, poiché lei stessa è figlia di un matrimonio misto, un’anomalia in un mondo improvvisamente ossessionato dalle identità. E la pace, quando arriva, non è che un’inquilina imbrogliona e inadempiente. Attorno a Lejla le figure importanti si spengono una alla volta, lasciandola in balìa di un compito difficile da apprendere, l’arte di perdere. È una caduta a corpo libero: perdere le persone, le case, i luoghi e infine ritrovarsi sul fondo, disorientata, sola e spezzata in un ospedale psichiatrico. La risalita è un percorso a ostacoli in cui l’incontro con una ragazza, la scoperta dell’amore, è un faro e un terremoto, sullo sfondo di un paese lacerato dalla guerra.
Quando si è avvicinata alla letteratura? E perché ha scelto la forma del racconto breve?
«La mia scrittura è stata profondamente legata alla passione per la lettura fin dall’inizio. Ancora oggi, se dovessi definirmi con precisione, direi che sono prima un lettore e solo dopo uno scrittore. Il racconto breve non è stata una scelta consapevole. Ai tempi del liceo, rispondevo con un racconto invece che con saggi su argomenti assegnati per le lezioni di lingua. È semplicemente il mio primo impulso, un modo di rispondere alla vita e al mondo che mi circonda».
Ha mai pensato di scrivere un romanzo?
«Sì, certo. Attualmente sto scrivendo un romanzo».
Era una bambina quando a Sarajevo si combatteva: quanto l’ha segnata personalmente quell’esperienza? E quanto peso ha nel suo lavoro?
«La guerra a Sarajevo e la disgregazione dell’intero Stato socialista mi hanno segnato profondamente. Ancor più perché l’ho vissuta da bambina, una ragazzina appena entrata nella pubertà: un periodo della vita che in genere non si dimentica mai. Tutto quello che ci è successo negli anni ’90 fa ancora parte di me e, quindi, delle mie storie e dei miei spettacoli. Anche se eravamo ancora bambini, la mia generazione continua a dividere la vita in “prima” e “dopo” la guerra».
Lei rimpiange la Jugoslavia di prima della guerra? E le ferite scatenate da quel conflitto sono davvero guarite?
«Il mio collega scrittore Dinko Kreho ha risposto meglio a questa domanda dicendo che noi, ovvero la generazione nata negli anni ’80, piangiamo un futuro che per noi non c’è mai stato».
Quanta importanza ha la sessualità nella sua poetica?
«Molta. Sia che io scriva testi d’autore sia che scriva romanzi, o comunque narrativa, mi rivolgo sempre a coloro le cui identità non si adattano all’eteronormativo della società».
Persino Franz Kafka appare come personaggio in una delle sue storie. Per quale motivo?
«Kafka è stato uno dei miei primi idoli letterari. Forse perché lo leggevo in quegli anni di formazione, per me ha ancora un’importanza significativa. Credo di non aver mai del tutto abbandonato il mondo dei suoi libri».
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