esperti a confronto
domenica 10 Novembre, 2024
di Donatello Baldo
I dati pubblicati ieri dal T sono implacabili: dal 2014 al 2024 i giovani trentini tra i 14 e 24 anni che accedono per la prima volta ai centri di salute mentale sono aumentati del 140%. Numeri che impressionano, ma che sono conosciuti da tempo dagli addetti ai lavori: «Il dato trentino è uguale al dato nazionale. Ma se altrove si stanno muovendo, qui si sta fermi», dice l’ex responsabile dell’Unità operativa di Neuropsichiatria infantile dell’Azienda sanitaria Stefano Calzolari. E lamenta un’immobilità del sistema anche la psicologa e prorettrice dell’Università di Trento Paola Venuti, un pensiero condiviso anche da molti insegnanti.
«La politica è assente»
Calzolari non entra nel merito del perché di questo aumento di disagio mentale, ma si concentra sugli effetti di questo aumento: «Da tempo la Società italiana di neuropsichiatria lancia l’allarme. Il problema è che questo allarme non è stato ascoltato, e ora è un problema perché questi giovani non sappiamo dove metterli». E spiega: «Se vent’anni fa poteva bastare un reparto di neuropsichiatria per ogni milione di abitanti, ora non è più così». Il reparto di Merano, l’unico in regione, è quindi insufficiente: «Certo, perché qui non sappiamo dove metterli, si lasciano al Pronto soccorso e poi ci si meraviglia che i colleghi vengono picchiati. Ma non ha senso mettere dei minorenni in psichiatria adulti, e non ha senso nemmeno lasciare in pediatria dei ragazzi che vivono momenti di forte alterazione, di ansia acuta. In tutte le altre regioni si fa la corsa ad aprire reparti, in Veneto ne hanno aperti tre. Qui nulla, non si fa nulla». Si fa il centro crisi di Arco: «Si mettono dei tamponi, e del centro crisi se ne parla da anni, ma nasce già vecchio».
«Cambiare la scuola»
Se Calzolari lancia l’allarme sul sistema sanitario, la professoressa Venuti lancia l’allarme per quanto riguarda il sistema scolastico: «Che è rimasto fermo a una società che non c’è più». Fa una premessa: «Oggi le famiglie sono più piccole, spesso con un solo figlio. Non c’è più la famiglia allargata. E le donne lavorano, non sono a casa». Emerge quindi che sono cambiate le famiglie, non i ragazzi: «I bisogno di un bambino e di un ragazzo sono sempre gli stessi, hanno bisogno degli adulti». I genitori: «Che lavorano entrambi, e che quando tornano a casa devono aiutare i figli a fare i compiti, mentre dovrebbero fare altro con i figli». E gli insegnanti? «La scuola si occupa solo di apprendimento, di prestazioni, con richieste sempre maggiori, quando invece i ragazzi hanno bisogno di relazioni sociali, di stare assieme tra loro». E tratteggia lo scenario tipo: «Uno studente finisce all’una la scuola. Va a casa, sta da solo. Vive la solitudine che diventa isolamento. E nascono malessere e fragilità. Quelli che si salvano sono spesso i giovani che fanno sport, che fanno musica, che impiegano il loro tempo». Che fare dunque? «Va ripensato il sistema, con una scuola che si allunghi al pomeriggio, che lavori sui gruppi, non solo sul singolo e le sue performance». La prorettrice però sottolinea come «non sia colpa degli insegnanti» se la scuola è così: «Il problema è che la concezione della scuola è vecchia, l’organizzazione è tarata su una società che non c’è più».
La frustrazione degli insegnanti
E gli insegnanti cosa dicono? «Che i ragazzi di oggi sono tristi», afferma Mariassunta Bonora, docente al Floriani di Riva del Garda e che da anni si occupa di progetti specifici per gli studenti sui temi dell’inclusione e del contrasto al ritiro sociale. «Tristi — ripete — questo è l’aggettivo giusto. Una fragilità soprattutto femminile, un senso generale di rassegnazione. E siamo tutti preoccupati». Anche per i numeri: «Nel nostro piccolo, vediamo anche noi un aumento esponenziale delle richieste di intervento». Ma cosa potrebbe fare la scuola? «Molto, ma succede che tutto è a nostro carico senza che ci siano nuove risorse. Dobbiamo occuparci di violenza di genere, di bullismo e cyberbullismo, di disturbi alimentari e abbandono scolastico. Tanti progetti, tante iniziative, ma non ce la facciamo. Non così, non con questa scuola, perché poi c’è tutta la parte didattica e l’implacabile programma ministeriale che deve essere portato a termine. Il rischio — conclude — è che non si riesca a fare niente bene, ed è frustrante perché davvero il corpo insegnante dà il massimo nel cercare di far fronte a queste nuove fragilità».
Un altro insegnante, Marco Rossini, collaboratore della dirigente del Filzi di Rovereto:
«L’aumento delle richieste di intervento per problemi legati all’ansia, agli attacchi di panico, alle emergenze di questo tipo è evidente. L’anno scorso abbiamo impiegato lo psicologo scolastico per il triplo delle ore dell’anno precedente». E spiega: «Ma non per interventi programmati, si tratta soprattutto di nuove richieste». Su questi elementi, il docente porta l’attenzione su quella che chiama «la priorità». E parla della prevenzione: «Non si può lavorare sempre e solo in emergenza. Servono iniziative per intercettare i bisogni prima della fase acuta». E la riflessione conclusiva: «I giovani di oggi non sono così perché geneticamente modificati rispetto ai giovani di ieri. Li abbiamo cresciuti noi così, è la generazione degli adulti che si lamenta delle loro fragilità che ha prodotto tutto questo. E di adulti è composto il sistema scolastico che non fa altro che caricare gli studenti di obiettivi, un sistema ansiogeno che andrebbe cambiato».