L'intervista

martedì 26 Novembre, 2024

Nadeesha Uyangoda: «Mario Balotelli, campione mancato perché è nero»

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La scrittrice: «Capriccioso? Come tanti altri calciatori. La bianchezza è una costruzione coloniale: gli italiani considerati ibridi»

C’è lo stadio come riflesso della società in cui viviamo e c’è Mario Balotelli che da superuomo e grande promessa per una rivoluzione del calcio come primo nero ad indossare la maglia azzurra è diventato una nullità, consumato da una lente che lo ha sempre osservato con grande meticolosità non come essere umano ma come persona di colore ingrata. Questi alcuni temi toccati dall’autrice Nadeesha Uyangoda che, domani alle ore 18.30, presenterà alla libreria «Due Punti» il suo nuovo libro «Corpi che contano» (Ed. 66thand2nd, 2024) insieme a Luca Vettori, ex giocatore della Trentino volley e della nazionale. Un inno alla fisicità, non più come mero utilizzo del corpo contrapposto alla concezione più coloniale e classista della mente, ma come necessità urgente per prendere una nuova consapevolezza e scardinare pregiudizi di razza, genere e classe.
Nadeesha, lei si definisce un’italiana nera. È un binomio che non molti comprendono (si pensi al caso di Paola Egonu). Come possono coesistere queste due definizioni?
«Egonu è una cittadina di diritto. È italiana: è nata in Italia, ha un passaporto italiano ma quando entra in campo viene considerata una giocatrice non italiana. Questo perché il binomio colore della pelle-cittadinanza si basa sull’attuale legge del 1992 che prevede una cittadinanza ereditata, trasmessa attraverso il legame di sangue. L’idea che passa è che il genitore bianco trasmetta la bianchezza e l’italianità ai propri figli ma ci dimentichiamo che il nostro è un territorio molto ibrido, che ha vissuto con scambi tra popoli del Mediterraneo. La bianchezza non è mai stato canone per definire l’italiano».
Un documento del 1920 proveniente dagli Stati Uniti descrive gli italiani come un «popolo dalla pelle scura, puzzolente, che vive ammassato in periferia». Che ne pensa?
«La bianchezza è un costrutto sociale, una cosa voluta, che gli stessi italiani hanno costruito attraverso la sottomissione coloniale di popoli afrodiscendenti. Usavano il colore della pelle per autodefinire la loro appartenenza alla razza ariana prendendo le distanze da popoli diversi. Ma nella storia gli italiani non erano considerati bianchi: in un processo, sempre negli Stati Uniti a fine Ottocento, una donna italiana viene definita “razzialmente ambigua”».
Il nostro linguaggio quanto è ancora pregno di colonialismo?
«Moltissimo. Pensiamo a quanto siano diffuse parole dal passato coloniale come marocchino o ambaradan. Abbiamo conservato questo tipo linguaggio e lo abbiamo poi trasformato adattandolo all’epoca contemporanea. Se una volta si utilizzava “vu-cumprà” come termine razzializzante che identificava delle persone, ora abbiamo aggiunto termini altrettanto offensivi. E lo notiamo anche nella pratica: Egonu vince le Olimpiadi con la sua squadra ma è immediatamente descritta come nera».
Ha menzionato la parola «ambaradan». Spieghiamo da dove arriva?
«Da Amba Aradam che è un’area montuosa in Etiopia dove i soldati italiani hanno combattuto la guerra nel 1936. Oggi la utilizziamo per descrivere una grande confusione perché quella battaglia fu estremamente sanguinosa, combattuta anche con l’uso di armi chimiche. Fu un massacro. Utilizziamo questa parola con leggerezza ma, nella pratica, indica un genocidio».
Parliamo del suo ultimo libro «I corpi che contano», come ha scelto il titolo?
«Ho preso spunto da un saggio della filosofa Judith Butler. Nella filosofia occidentale si è sempre raccontata la superiorità della mente rispetto al corpo e di quanto la forza fisica sia necessaria per portare a termine dei lavori come se fosse qualcosa di minor importanza. In un’ottica colonialista, il corpo è stato delocalizzato negli schiavi costruendo l’idea che la mente è incarnata dall’Occidente mentre il fisico è un appannaggio delle persone nere i cui corpi sono stati utilizzati e mercificati. Così ho sottolineato l’urgenza e la necessità del lavoro del corpo. L’idea era di portare al centro il valore del fisico e il suo valore identitario politico che non è inferiore all’intelletto e vorrei che il corpo rientrasse al centro del discorso».
Per raccontare i corpi ha usato lo sport come metro di analisi, perché?
«Perché nel discorso pubblico ormai si incoraggiano i giovani a perseguire un percorso accademico che valorizzi l’intelletto, mettendo lo sport ad un piano inferiore come fosse una pratica secondaria. Quante volte sentiamo genitori dire ai propri figli “concentrati sullo studio e molla lo sport”?».
Quanto è radicato il razzismo nelle piste di atletica o nei campi da calcio?
«Nel mio libro dedico un intero capitolo al calcio. Mi piace molto».
Diciamo che la nazionale italiana non eccelle per ibridismo, rispetto ad altre squadre europee…
«La nazionale francese, inglese sono squadre multietniche dagli anni Ottanta. In Italia ci sono due giocatori di seconda generazione ed entrambi giocano nel Regno Unito, perché evidentemente preferiscono un ambiente dove episodi di razzismo vengono sanzionati in maniera importante. La discriminazione in Italia esiste nel calcio così come in altri sport. Lo stadio è il riflesso della società».
Che ne pensa di Balotelli?
«Doveva rivoluzionare il calcio italiano: è stato il primo nero a indossare la maglia azzurra e a 20 anni era sulla copertina del Times. Era certamente un ragazzo arrogante e difficile da controllare ma non più di altri giocatori. Il problema è che era nero e da lui le persone si aspettavano una sorta di ringraziamento, di segno di gratitudine per i risultati ottenuti. Il suo avere un sacco di soldi equivaleva a “sei un ragazzino viziato e invece dovresti lavorare sodo e meritarti quello che guadagni”».
In campo, invece?
«Lo si è reso eroico finché andava tutto bene, però, quando sbagliava (anche nel suo comportamento) è diventato meno di un essere umano. Non è mai stato trattato come un uomo: o era un eroe calcistico o una nullità. A Balotelli non è mai stata concessa la possibilità di sbagliare, di essere un calciatore con i suoi alti e bassi, come gli altri».
Lei parla anche di ius soli sportivo. Perché ha saputo guadagnarsi una certa dignità nel dibattito pubblico, al contrario della sua applicazione generalizzata?
«Lo ius soli sportivo è una normativa entrata in vigore nel 2016 che permette ai giovani, entrati in Italia prima del compimento del decimo anno, di partecipare alle gare nazionali. Questo è un passo in avanti per chi vuole praticare sport a livello agonistico».
Cosa ne pensa della cittadinanza per merito sportivo, invece?
«È un percorso che a me non piace, che sia per merito sportivo o merito in generale. Il tiktoker Khaby Lame ha ottenuto la cittadinanza italiana grazie al suo exploit sui social ma non appoggio questo iter, perché la cittadinanza è un diritto anche per chi sta sul divano e non eccelle in alcuna pratica. La cittadinanza è per tutti, non serve essere campioni».
Lei conduce anche il podcast «Sulla razza». Come è nato?
«Mentre scrivevo il mio primo libro “L’unica persona nera nella stanza” mi sono accorta che utilizzavo parole inglesi per parlare del contesto razziale».
Un esempio?
«Il termine “colorismo” (colorism ndr) in inglese indica una discriminazione che impatta le persone con una pelle più scura. In italiano non esistono parole di questo genere, quindi, come possiamo pretendere di affrontare una problematica se non esiste il lessico per parlarne?»