Il documentario
sabato 30 Novembre, 2024
di Simone Casciano
Durante la spietata siccità dell’estate del 2022, la stessa che ha causato la tragedia della Marmolada, ad un certo punto lo scrittore Paolo Cognetti si è reso conto che la sorgente che portava l’acqua alla sua baita a Estoul, in Val d’Ayas, era completamente prosciugata. Lo scrittore ha quindi alzato lo sguarda e iniziato una ricerca all’origine dell’acqua, nel mezzo dei ghiacciai delle alpi occidentali, un viaggio, tanto fisico quanto interiore, raccontato ora nel documentario «Fiore mio». Una pellicola che ruota attorno al Monte Rosa, chiamato così non per il colore che acquisisce al tramonto, ma perché «rouja» che nel dialetto locale significa proprio ghiaccio. Una «montagna di ghiaccio» che sta sparendo. «E questo non è un problema per la montagna in sé – dice Cognetti – Il cambiamento del paesaggio montano di per sé è un aspetto estetico, è invece un problema drammatico per noi. Per le popolazioni delle montagne così come per quelle di fondovalle».
Cognetti come nasce l’idea del documentario?
«Beh, l’incipit dell’incipit è che quando avevo vent’anni ho fatto la scuola di cinema e nel tempo ho lavorato ad alcuni documentari con il regista Giorgio Carella, che mi ha accompagnato anche questa volta. Questo documentario nasce nel 2022, durante la siccità, Si è prosciugata la fonte che porta l’acqua alla mia baita. È stato un momento angosciante, perché quell’acqua per me significa vita lì. È nato quindi questo viaggio di ricerca diventato poi il film».
L’acqua è il filo conduttore del film?
«Si c’è a chi piace discendere i fiumi e i torrenti, fare canyoning. A me invece piace risalirli, andare all’origine, cercare la foce. Una risalita ricca di significati metaforici».
Lei indaga anche il rapporto tra uomo, acqua e montagna.
«Molti pensano che il problema del ritiro dei ghiacciai sia un problema delle montagne, ma non è così. Il ritiro dei ghiacciai non è solo un effetto estetico, con la neve che lascia spazio alla pietraia, ma un problema di assenza di una risorsa vitale. Il problema è che senza i ghiacciai viene meno l’acqua d’estate e non solo in montagna. Lo abbiamo visto nel 2022 quanto la siccità ha minacciato anche il fondovalle, le colture del Veneto e dell’Emilia Romagna».
Il documentario attraversa tre rifugi che sono un po’ il simbolo del viaggio?
«Sì sono l’Orestes hutte, il Quintino Sella al Felik e il rifugio Mezzalama. Ma come ci sono i tre rifugi materiali, fisici, c’è anche una metafora dei tre rifugi buddhisti: il maestro, ossia il buddha, la comunità, ossia il gruppo dei credenti, e la via, cioè la strada della saggezza e della conoscenza. Ho costruito il film attorno a questa metafora».
Che effetto le fa il ritiro dei ghiacciai?
«Il ghiacciaio che andavo a vedere con mio padre quando ero bambino oggi è 300 metri più in alto. La montagna si trasforma, il problema rimane nostro. Della disponibilità idrica. Gli animali se la cavano, siamo noi che non siamo capaci di sopravvivere in questo contesto».
Aveva già lavorato a dei documentari, ma questa è la sua prima opera da regista. Com’è andata?
«È stata una bella esperienza, sono un esordiente, non mi ritengo un vero regista. L’ho fatto con tutte le emozioni del caso. La mia fortuna è stata quella di circondarmi di tanti professionisti bravissimi, tra cui cito il direttore della fotografia Ruben Impens, che aveva ricoperto lo stesso ruolo anche nella trasposizione cinematografica del mio libro “Le otto montagne”. Avere lui e altri professionisti accanto a me, mi ha fatto sentire più sicuro in questo viaggio».
Le musiche sono di Vasco Brondi. Che rapporto avete?
«Ci conosciamo da una decina d’anni. Quando ci siamo incontrati abbiamo scoperto che entrambi già conoscevano l’altro, io ascoltavo i suoi dischi, lui leggeva i miei libri. Abbiamo scoperto che ci accomunavano tante cose da lì è nata un’amicizia a cui questo film ha dato l’opportunità più bella che si possa avere tra amici: quella di lavorare insieme a qualcosa. E anche da lì è nato questo progetto».
La preoccupa l’overtourism in montagna? Come si può trovare un equilibrio?
«Io quanto tutti vengono qui in montagna vado altrove, preferisco frequentarla fuori stagione. Penso che dovremmo seguire alcune regole semplici. Innanzitutto non costruire cose nuove, sulle nostre montagne ci sono già tante costruzioni e manufatti abbandonati, se bisogna fare un intervento che si recuperi quello, invece di consumare nuovo suolo. Sul turismo si può fare poco, forse servirebbe un po’ di coraggio. Mettere un numero chiuso agli accessi nelle valli alpine. Dopo un certo numero di macchine non si entra più. O si sale a piedi o si prendono i mezzi pubblici».