La storia

sabato 30 Novembre, 2024

Iron, il villaggio che in inverno perde tutti gli abitanti

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Quest’anno è morto l’ultimo residente stabile del borgo che ha resistito ai contagi medievali. Vuoto anche Cerana

L’ultimo abitante stabile del villaggio medievale di Iron se ne è andato il 12 aprile 2024 con 89 primavere sulle spalle. Giovanni Giovanella avrebbe compiuto 90 anni a luglio. Lo hanno ricordato sabato 23 novembre quando a Iron, per la ricorrenza di S. Caterina d’Alessandria, venerata da queste parti, sono tornati tutti. Un centinaio di discendenti di coloro che la peste aveva sterminato o disperso tra Coltura e Ragoli, sul fondovalle della Sarca.
D’inverno, il villaggio simbolo della sopravvivenza ai contagi medievali, torna alla quiete di un alpeggio in letargo. Come gli orsi che, finalmente, consentono di aggirarsi senza eccessivi patemi tra queste balze dirimpetto alla selvaggia val d’Algone. Qualche voce tra le abitazioni sprangate.
Edio Cerana, cognome piuttosto diffuso, lo ammette quasi con rassegnazione: «Son chi quei quattro come mi, a far la legna. Ormai se va ‘nanc e ‘ndré» (Siamo qui in quattro a far legna; si va avanti e indietro). Se non nevica, a Iron salgono anche d’inverno coloro che tengono casa. Poche ore per sistemare la legna di faggio e di rovere, tagliata d’estate, o per qualche lavoro di manutenzione delle secolari abitazioni.
Restauri non sempre rispettosi dell’antico e di una storia che si è fatta leggenda. Ma è già tanto che sia stato levato un traliccio della rete elettrica che violentava il paesaggio. «I comuni di Stenico e Bleggio Inferiore hanno fatto una cabina di trasformazione per portare la luce in val d’Algone – racconta Matteo Leonardi, 42 anni, sindaco (di Ragoli, oggi Tre Ville) dal 2010 – e, come contropartita, abbiamo chiesto che fossero levati quei pali che rovinavano l’ambiente».
Iron torna a popolarsi per l’estate. Ma si comincia a metà marzo con il disgelo dei prati. Proprietari delle case, o di porzioni di abitazione, sono gli eredi di 33 famiglie, tutte di Tre Ville, il nome preso dal comune con la fusione (2016) dei territori di Montagne, Preore e Ragoli.
Quest’ultimo agglomerato, che ne è il capoluogo, ha portato in dote mezza Madonna di Campiglio e buona parte degli introiti del florido bilancio. Sindaco Leonardi, che rapporto avete con Madonna di Campiglio, la quale, benché a una trentina di chilometri da Ragoli, in parte è anche vostra?
«È una particolarità perché sono due nuclei abitati e distanti: Tre Ville basse, se vogliamo chiamare così Ragoli, Preore e Montagne, e Tre Ville alte, la parte del Palù a Madonna di Campiglio, con 200 residenti. La proprietà pura è delle Regole di Spinale e Manez, che incassano gli affitti. Noi, con le entrate da Imis siamo sui 2 milioni e 200 mila euro l’anno. L’80-85% arriva da Madonna di Campiglio».
Le Regole di Spinale e Manez sono una proprietà collettiva di beni e terreni già dell’antica Comunità di Preore. La Regola di Spinale possiede 4 mila ettari del monte Spinale e parte del gruppo di Brenta (Vallesinella, Val Brenta, il Grosté). La Regola di Manez ha in portafoglio 680 ettari tra la val d’Algone e la val Rendena. Quanto a Iron, Teodoro Cerana è il proprietario di una delle più antiche e ben conservate abitazioni del villaggio. Nella cucina dismessa da anni, al piano terra, tra gli avvolti anneriti dalla fuliggine di quando si cuocevano «mosa e trisa», Teodoro ha predisposto un’esposizione della fatica e del lavoro contadino: zappe e rastrelli, il portacote, le catene della «segosta» che tenevano il paiolo sopra il fuoco, la cesta, la gerla… «I proprietari delle case sono tutti della zona di Ragoli e chi non lo è ha sposato una donna di qui».
In verità c’è stato un acquirente venuto «da fuori». Era di Bassano del Grappa. Ha comprato una stalla con fienile, l’ha restaurata («el l’ha fata fò»), l’ha goduta un anno. È morto due mesi fa.
Livio Cerana, 75 anni: «Gli anziani vengono su a tagliare l’erba dei prati perché campi non ce ne sono più. Una volta era tutta campagna. Quando c’era miseria si coltivavano patate e granaglie. Oggi l’erba non serve a nessuno. Si taglia e si butta via. Ma l’ambiente va tenuto bene sennò il bosco se lo mangia». Gli escursionisti che passano restano affascinati: dal luogo, dalla storia, dal destino di un villaggio. Un cartello giallo, sulla strada d’acceso, lo segnala come «abbandonato dopo la peste del 1630».
Non è proprio così, o non del tutto. Paolino Scalfi Baito, indimenticato insegnante e autore di studi e ricerche su Iron e Cerana, scrisse che «a Iron visse sempre qualche famiglia. Lo testimoniano i libri dei nati e dei morti nell’archivio della parrocchia di Ragoli».
«È un luogo magico, di grande fascino. C’è una bellissima energia. Peccato per qualche restauro non proprio riuscito» rileva Debora Scaperrotta, filmaker di Bolzano, arrivata a Iron dopo aver visionato qualche immagine in Internet. «Siamo qui per un sopralluogo, possibile location per un film che vorremmo realizzare» precisa il suo accompagnatore, Dario Federspiel, da Tubre. «C’è proprio una bella anima. Anche la cappella di S. Giacomo, di là dai prati, emana un richiamo quasi magnetico». Non sufficiente, peraltro, ad attirare sulla montagna giovani coppie e, con esse, il volo della cicogna. «A livello demografico, annota il sindaco Leonardi, c’è una contrazione. Dalla fusione a oggi, a fronte di 10 nati sono 20 le persone che ci lasciano. Tra immigrazione ed emigrazione di gente che si muove, perdiamo da 15 a 20 persone l’anno». Tuttavia, «c’è una riscoperta con il recupero dei ruderi o delle “cà da mont”. Ma se intendiamo un paese vivo, con gente che ci abita stabilmente, anche qui seguiamo il trend nazionale».
La montagna rifiorisce d’estate. «Il fatto che Tre Ville sia un luogo abbastanza centrale, a mezz’ora di vettura da Campiglio, da Riva del Garda, da Molveno, ha favorito una riscoperta delle mezze stagioni». Iron, sindaco, gode di una tutela particolare?
«Aumento di volumetrie o aperture di abbaini proprio non se ne possono fare. Il villaggio di Iron va mantenuto il più possibile così com’è».
«Bene o male, se non fiocca, c’è sempre qualcuno – avverte Edio Cerana – C’è pure chi tiene qui le galline tutto l’inverno».
A proposito di polli: una leggenda racconta che al tempo della peste (1458? 1630?) l’ultimo sopravvissuto al contagio s’era rifugiato a Cerana, nei casali sulla montagna. Dopo aver inutilmente gridato da una roccia per verificare se a Ragoli c’era ancora qualcuno, aveva calato dall’alto una corda alla quale aveva legato un pollo. Nessuno lo aveva spennato, segno che sul fondovalle erano morti tutti. Oggi non c’è anima viva nemmeno tra le «cà da mont» di Cerana. Dove tutto è sprangato. La strada si inerpica sul versante che guarda «la Busa» di Tione. Passa accanto alle cave di marmo nero (coltivate sino al 1937), chiuse dopo un infortunio mortale. Sul pianoro, oltre la cappella di S. Stefano (1724, rifatta dopo l’incendio del 1854) la casa Giacomini-Martin. All’interno, lacerti di affreschi della fine del Quattrocento richiamano un insediamento del tardo medioevo. Sulla facciata a capanna, un’antica meridiana resiste alle intemperie. Accanto, tre arnie, annerite dal vento, rammentano l’incessante ronzio delle api che si mischiava con le voci dei bimbi. Divenuti adulti e finiti chissà dove. Come le api che ronzavano al sole dei pomeriggi d’inverno.