la mostra
lunedì 2 Dicembre, 2024
di Anna Maria Eccli
Quando la fotografia non cerca più il verosimile, o la riproducibilità che la rende «democratica» ma muta, e nemmeno è la rappresentazione del morto (di ciò che non c’è più) come amerebbe dire Barthes, diventa arte. Apre a sguardi nuovi, emozionanti, metaforici, metafisici. Interpretare il mondo uscendo dalla gabbia dell’oggettività permette di indicare prospettive nuove, plurime, emozionando. Al Museo della Città è allestita (fino al 30 marzo) una mostra fotografica suggestiva: «Fili di seta». Sono 20 teli di carta di gelso impressionati dagli scatti di Paolo Aldi; una cascata di documenti iconografici che sfumano l’uno nell’altro, inestricabili, potenti alchimie di acque, bachi, filande, volti per descrivere la febbre di un tempo che all’improvvido non sembra più perduto e che lo stesso Aldi identifica come «lo spirito del luogo». Enormi fogli di carta contrappuntati dal ricamo dei cordoni di seta in caduta sul pavimento, realizzato a quattro mani con la moglie, Lia Grigoletti. Richiamano il «punctum» barthesiano, ferita attraverso cui l’osservatore è chiamato a entrare nell’opera.
Classe 1955, maturità scientifica, figlio del giornalista Aldo Aldi, Paolo muove i primi passi ufficiali con una macchina fotografica di redazione, all’Alto Adige, dove lavorava il padre, il giornalista Aldo Aldi. Per 15 anni è fotografo ufficiale del quotidiano, ritrae e documenta personaggi e fatti producendo materiale preziosissimo che dal 1990 è conservato alla Fondazione Museo Storico del Trentino. Nel 1988 molla il giornale e apre uno studio tutto suo in Via Garibaldi: si dice fotografo, ma si pronuncia «sperimentatore», fa subito intendere.
Inizia a lavorare con la fotografia stenopeica (realizzata senza lenti e obiettivi) e con tecniche antiche di stampa con gomma bicromata e callitipia, utilizza pellicole a infrarosso per la ritrattistica, si dedica alla lenta procedura della foto a encausto su legno. Ama ciò che non è nitido in genere, perché là c’è il sussulto dell’animo, là essenze misteriose. Usa provocatoriamente perfino la Polaroid, ma ne scarnifica l’aspetto ludico portandovi l’astrattezza del tempo. Fino ai lavori con la cera sulla Comune di Parigi, a metà strada tra documentazione e arte. Realizza libri cuciti a mano con la moglie e, con gesto dadaista, ne fissa un prezzo che lievita mano a mano che sono venduti perché «bisogna pur premiare i primi che credono in te». Partecipa a mostre, vince premi e con l’«Aromatico omaggio a Marcel Duchamp» si diverte una volta in più a rompere schemi producendo (e vendendo) water trasformati in vasi per piantare rosmarino e salvia, di cui conserva qualche esemplare nel giardino della bella filanda di Nomi in cui vive e lavora dal 2015 con la moglie. Perennemente alla ricerca dell’aura di Benjamin che rende unico e dinamico lo scatto, cerca quello che per un fotografo è paradossale: la non riproducibilità dell’opera.
Aldi, definisca il suo mestiere.
«Sono un artista visivo, e poi sono anche fotografo».
All’improvviso è sparito da Rovereto».
«Sparito da Rovereto… abitiamo a Nomi, dove il papà di Lia aveva acquistato e restaurato una filanda dell’Ottocento».
Al Museo della Città c’è la sua bellissima mostra dedicata al periodo aureo della storia cittadina. Come vede la città, oggi? Decaduta, come dicono in tanti?
«Decaduta… stiamo sempre a considerare il passato come più bello! È solo una città che ha bisogno di trovare la sua strada, dopo la crisi. Bisogna fare lo sforzo di riconoscerla come cuore pulsante, vaso linfatico per tutta la valle, rispetto alla quale, non c’è dubbio, deve essere di guida».
Le sue origini.
«Inizio a fare il fotografo nel 1974, nello stesso giorno della mia maturità scientifica ero diventato fotografo ufficiale dell’“Alto Adige”, quotidiano su cui scriveva mio padre. Il mio primissimo lavoro fu il reportage su studenti e professori all’esame liceale; ero stretto tra il ruolo interno di esaminando e quello esterno da reporter».
Aldo Aldi era un’importante voce del giornalismo locale, essere suo figlio la facilitò?
«Per la verità fu un collega di mio padre, Gigi Fait, a ricordarsi della mia passione quando Carmelo Bortoluzza Bonmassar, che seguiva lo sport, è stato male. Era gravemente ammalato, senza speranza, ma allora nelle redazioni c’era ancora cuore e non glielo dissero mai. Il Rovereto all’epoca giocava in serie C e allo stadio c’erano anche 4000 spettatori. Trovandosi all’improvviso senza fotografo, “in campo” il giornale mandò me. Il giorno dopo ebbi la soddisfazione di vedere tutte le foto riprodotte su doppia pagina. Per tutto quell’inverno fui il reporter del Rovereto e, dopo, fotografo del giornale, per 15 anni».
Quando inizia ad appassionarsi di fotografia?
«Avevo 6 anni quando mi regalarono la prima macchina, ero affascinato dalla collezione di nonno, che possedeva tanti apparecchi antichi. A 14 anni ho realizzato la mia prima camera oscura e la prima mostra l’ho fatta in classe, al Liceo, fotografando di nascosto i professori, in pose molto divertenti».
Fotografare persone è sempre stato il suo pallino…
«Certo perché hanno mille sfaccettature. Siccome tutti ci atteggiamo, quando cerchi di fare un ritratto vero vuoi estrarre la parte nascosta, reale, della persona. Ma per arrivare a questo devi aspettare il momento giusto. Si accetta d’essere se stessi solo quando crollano le costruzioni. Per questo il ritratto non potrà mai essere una foto fatta “al volo”, deve nascere nel rapporto tra soggetto e fotografo».
Un rapporto di potere?
«Hummm… sicuramente il mio ruolo è predominante dal momento che sono io ad accompagnare la persona e a scattare, ma se l’accompagno bene, sono solo un amplificatore del suo essere, magari di interiorità poco note».
Cosa significa «accompagnare»?
«Una sessione di ritratto può durare una, due ore, o più, dipende dalle persone. Quasi mai si riesce a scattare delle buone foto inizialmente. Anzi è un vero disastro: il soggetto è imbarazzato e in imbarazzo sei anche tu; devi ancora capire chi hai davanti. Ma un po’ alla volta, scattando, parlando, interagendo, finisce che il soggetto ti accetta completamente e si lascia andare».
Diverso sarà per un fotografo di moda.
«Ah, certo, quella è fotografia costruita, in cui il soggetto è un professionista che recita a soggetto e tu lo dirigi; è come un barattolo di pomodoro che metti dove vuoi. La fotografia è tante cose, tanti mondi e io sto raccontando ciò che ero un tempo, quando facevo tanti ritratti; l’impostazione era quella del fotogiornalismo, cercavo l’insolito, facevo tanti scatti…»
Ma la sua fotografia era già dinamica, astratta, non oggettiva, sempre più artistica, su carte stupende, belle da toccare.
«Sono passando attraverso il fotodinamismo futurista di Bragaglia, non ho inventato nulla insomma, ma mi sono sempre sentito sperimentatore. Oggi mi pongo il problema dell’interpretabilità dell’arte contemporanea concettuale, a volte difficile da comprendere. Credo sia importante affiancarla al racconto. È un po’ quello che ho voluto fare al Museo della Città; c’è un apparato didascalico che accompagna una mostra che è concettuale, declina la condizione della donna, l’indipendenza della natura, il tema dell’artefatto che supera la natura, perché il baco selezionato 5 mila anni fa è capace di vivere solo se allevato».
Il suo primo lavoro importante?
«I nudi femminili di “Fluttuazioni”, nel ’98. Quando un soggetto si denuda significa che si fida di te e allora anche il viso cambia. E i lavori migliori sono quelli che mi permettono di raccontare storie… “vere”».
Ora a cosa sta lavorando?
«A cose che volevo fare da una vita; cogliere la luce verde-azzurrina che per 30 secondi separa il tramonto dalla notte al lago di Garda, farlo a modo mio, esaltando difetti come la perdita di nitidezza, le cadute di luce… e riprendendo l’encausto usato da Greci, Romani, antichi Egiziani. Anche De Chirico usava la cera in pittura».