Campi Liberi

domenica 19 Gennaio, 2025

Il regista Segre: «Berlinguer, una figura attuale. Oggi difenderebbe i migranti. In sala 200mila giovani»

di

Il cineasta e scrittore: «Non ho voluto fare un film sulla memoria ma partire da questa per affrontare il presente. La sinistra? Deve smettere di inseguire la destra»
I migranti e Enrico Berlinguer. Un filo sottile accomuna la categoria senza tempo dei cercatori di vita e il segretario del Partito comunista italiano, l’ultima biografia rimpianta della politica nel sentire comune. Ed è la democrazia intesa come unità di misura del vivere collettivo, come spia del suo disagio, come capacità di intessere relazioni paritarie e quindi di promuovere l’emancipazione dal bisogno. Con le parole (migranti) e le immagini (Berlinguer) Andrea Segre ha setacciato il male contemporaneo (la crisi democratica), seguendone le tracce fino al presente. «Se Berlinguer fosse tra noi non avrebbe esitazioni su quale posizione assumere rispetto a chi migra perché la analizzerebbe come una questione di classe e non sarebbe interessato alla provenienza né al colore della pelle» afferma il regista cinematografico che domani sarà in Trentino per un doppio appuntamento: alla libreria Due Punti (ore 18) a Trento per presentare il testo «Scritti mediterranei» (People) e all’auditorium comunale di Lavis (ore 20.30) per la proiezione di «Berlinguer. La grande ambizione». L’arte politica di Segre ha sostato a più riprese sulle questioni sociali e culturali che hanno impresso il loro marchio sul tempo coevo sia nella forma affine del docu («Mare chiuso», «Ibi», «Come un uomo sulla terra» per citarne solo alcuni) sia in quella del lungometraggio («Io sono Li», «La prima neve», «L’ordine delle cose», «Welcome Venice»). «Il cinema può sensibilizzare, può portare alla luce le biografie degli invisibili, può aprire visioni. Ma non è la soluzione del problema. Solo la politica ha il potere di cambiare le cose e il mondo» sussurra.
Segre, nel suo libro «Scritti mediterranei» raccoglie pensieri, analisi e viaggi sul topic a cui ha dedicato più energie: le migrazioni. Dal primo respingimento del 2009 ai centri in Albania è il diario di un rifiuto. Come nasce?
«La genesi è nella rilettura, ad anni di distanza, di un appunto del 2009: ho verificato che eravamo sempre nello stesso punto, sempre nello stesso meccanismo. Nel 2009 pensavo che l’umanità non avesse ancora trovato una soluzione giusta. Mi sbagliavo. Siamo un corpo malato, è la malattia della democrazia. Le disuguaglianze, le guerre, gli estremismi, i miliardari che gestiscono il potere politico hanno ridotto la prospettiva di futuro. Se Berlinguer rivivesse ci ammonirebbe sul senso di marcia. Questo è il punto di contatto tra il libro e il film, la crisi democratica. Ho scritto un libro in itinere senza sapere che sarebbe diventato tale e alla fine si è rivelato come il diario di un malato: un giorno è la tosse, un giorno dolgono i piedi fino a quando si materializza il tumore. Quindici anni fa chi avrebbe potuto pensare che i neonazisti avrebbero riacquisito consenso in Germania o che a Gaza la guerra uccidesse 70mila persone? Nessuno, è l’avanzare della patologia».
Qual è, se c’è, la reazione alla malattia?
«Non c’è consapevolezza. Uno dei punti da cui si è innescata la malattia, i migranti, sono diventati la normalità più assoluta. Puliscono gli ospedali e i luoghi di lavoro, accudiscono gli anziani, sgravano le famiglie, mantengono vivi mercati e lavori umili, vivono al nostro fianco. Lo fanno attraversando gli incubi del nostro giudizio e l’ipocrisia della nostra cultura. Ho voluto aggiungere due viaggi agli appunti che avevo: uno con mia figlia Dafni nella nostra realtà sociale, in quella che ci circonda dove viviamo in piazza Vittorio a Roma; l’altro in Albania – punto avanzato della malattia – dove il governo ha voluto costruire dei centri di detenzione che sono illegali e che rispondono ad un disegno politico chiaro».
La discriminante del «nero», della difformità rimane sempre un pregiudizio quasi inaggirabile. È una sopravvivenza del costrutto culturale coloniale o la difesa di un privilegio?
«Qualche anno fa avrei risposto che non è il retaggio coloniale a determinare questo atteggiamento, ma l’aspetto economico. I giovani neri che minacciano l’equilibrio di una società bianca e anziana. Ma due anni fa sono stato a Charleston, in South Carolina (negli Stati Uniti), che era il porto più attivo per lo scambio e la vendita di schiavi. Milioni di persone transitate e gestite come bestie. Questa tratta è durata 250 anni ed è stata necessaria una guerra civile per porre la parola fine, per affermare che quella pratica – la riduzione in schiavitù di un essere umano – non era ammissibile. Questo raccontano i musei che ne ripercorrono la storia. Poi ho visitato quello che furono le grandi proprietà terriere dove gli schiavi erano impiegati nei campi di cotone e non solo. Sono stati trasformati a loro volta in musei e raccontano le gesta familiari. Solo in uno spazio ridotto e marginale, come se fosse un dettaglio, si dice che c’erano anche gli schiavi. È come se andando ad Auschwitz la visita fosse incentrata sull’appartamento di Goebbels e dei gerarchi nazisti e poi si documentasse in modo incidentale dello sterminio. Ecco l’uomo nero è stato per secoli considerato una non persona, ha subito qualcosa che è superiore all’Olocausto. E non ha avuto un processo né una Norimberga che lo riconoscesse. La storia delle piantagioni è ancora oggi raccontata dal punto di vista dei bianchi, dei proprietari terrieri e credo sia una ferita enorme della nostra cultura».
Eppure, la paura dell’altro sembra avere un’alimentazione continua. E molto trasversale.
«Che la destra faccia leva sulla paura dell’altro è normale. Ma la sinistra dovrebbe scardinare questo meccanismo mantenendo fermi i principi di democrazia e di diritto. Il fatto stesso che l’immigrazione sia stata affrontata come un’emergenza umanitaria è un errore gigantesco. Dentro a questo fenomeno ci sono pressioni sociali ed economiche forti a cui occorre offrire una risposta, a cui occorre dare giustizia».
Nel capitolo dedicato a Rosarno e allo sfruttamento dei migranti nei campi, afferma che «la sinistra è morta» perché «ha definitivamente cancellato la volontà di combattere i gestori privilegiati e liberi dello sfruttamento economico».
«Credo che ora, da più parti, ci sia la comprensione di avere sbagliato. Se la sinistra insegue la destra fino ai campi libici o su altre tematiche non ha prospettiva. Se analizziamo, poi, il tema della cittadinanza dove siamo ancora fermi allo ius sanguinis manca una spinta. Un mio caro amico, Salami, protagonista nel docu “Idi” è arrivato in Italia nel 2003 e ha ottenuto la cittadinanza 21 anni dopo. Nel frattempo ha svolto tutti i lavori possibili:  meccanico, venditore di tabacco, autista, lavoratore nei mercati, mediatore culturale. Queste persone tengono in piedi la società, ma siamo ancora nel paradigma di una cittadinanza negata. E la sinistra non lo ha capito. Berlinguer la inquadrerebbe come una questione di classe, non sarebbe interessato alla loro provenienza. È una questione sociale. Invece abbiamo scambiato questo approccio emancipatorio con l’intervento umanitario in mare: che è sacrosanto, ma non è la risposta».
Riportare in superficie i nomi, i volti, le biografie dei migranti come fa nelle sue opere cinematografiche – e in quelle di alcuni suoi colleghi, da Kaurismaki ai fratelli Dardenne – può aiutare a ristabilire un approccio diverso?
«Sì, certamente, ma non può sostituirsi alla responsabilità della politica. A volte vengo contattato da deputati che mi chiedono una proiezione del film per affrontare il problema. Rispondo che la questione si affronta con azioni politiche non con proiezioni, le proiezioni possono al massimo aiutare a discuterne. Il cinema riflette, denuncia, sensibilizza. Ma non è la soluzione».
Il suo film su Berlinguer – un’opera complessa, dal punto di vista estetico, narrativo, autoriale – ha ricevuto critiche lusinghiere e qualche appunto da generazioni precedenti alla sua. Cosa ha condiviso di più e cosa di meno?
«Hollywood Reporter ha pubblicato un articolo pochi giorni fa in cui si diceva che “Berlinguer” è uno dei tre film (gli altri sono “Parthenope” di Paolo Sorrentino e “Il ragazzo dai pantaloni rosa” di Margherita Ferri, ndr) con il pubblico più giovane. Sono 150-200mila ventenni, un’onda bella e interessante. Cosa faranno di questo film non lo so, ma è un dato significativo. Per il resto ho ricevuto belle critiche, sia positive che negative, le considero tutte stimolanti e fanno parte di un dibattito democratico».
Perché un film su Berlinguer, cosa cercava?
«Quello che mi ha spinto realmente è l’idea che quella storia parli ancora alla nostra società. Mentre ero immerso nella lettura e nella vita di Berlinguer sentivo che c’erano degli elementi di contatto con l’attualità. Non ho voluto celebrare la sua memoria, ma utilizzare la memoria per capire cosa sta succedendo alla nostra democrazia, per indagare la relazione tra individuo e collettivo, per esplicitare la difficoltà di muoversi tra vita e sogno».
Il suo osservatorio sul mondo è un chiosco di bibite e gelati in piazza Vittorio, a Roma, dove vive. Un luogo di pluralismo culturale. Cosa osserva oggi?
«La spinta imponente della “turistificazione”. Vedo sempre più persone transitare che non sono né lavoratori stranieri né locali. Persone che vivono qualche giorno nelle case attorno a me, e poi scompaiono. È un elemento di disgregazione sociale e non aver governato il fenomeno è stato un errore. Piazza Vittorio è un luogo urbano di incontri, di giochi, di dialoghi, di iniziative culturali. Decidere che quei duemila appartamenti che si affacciano sulla piazza sono alla mercé del mercato turistico significa distruggere il tessuto sociale».