L'intervista
venerdì 14 Febbraio, 2025
di Emanuele Paccher
L’inferno, talvolta, esiste anche sulla terra. Ne è una testimonianza il carcere di Evin in Iran, la prigione di Teheran nella quale vengono reclusi gli oppositori politici. Negli anni sono state tante le persone detenute illegalmente: giornalisti, attivisti, turisti. Persone sgradite al regime di Khamenei e utili, talvolta, nell’ottica di avere a disposizione delle risorse umane da scambiare in caso di necessità. Una vera e propria politica degli ostaggi, della quale anche l’Italia è stata coinvolta nelle scorse settimane con la detenzione illegale di Cecilia Sala. Altre volte, invece, a Evin viene rinchiuso chi sogna e spera in un Iran diverso da quello attuale. È questo il caso, tra i tanti, di Narges Mohammadi, insignita del Premio Nobel per la pace nel 2023 e ancora oggi imprigionata e umiliata dalle autorità iraniane. La sua ultima condanna risale al 15 gennaio 2022, quando è stata condannata a otto anni e due mesi di reclusione, due anni di esilio e settantaquattro frustate.
Dal 28 settembre al 10 novembre 2022 anche una giovane italiana è stata presa in ostaggio e rinchiusa nel carcere di Evin. Si tratta di Alessia Piperno, 32 anni, originaria di Roma e agente di viaggio. Si trovava in Iran per motivi turistici, finché il giorno del suo trentesimo compleanno venne incarcerata: per quarantacinque giorni la sua routine non fu più composta da visite a paesaggi e città mozzafiato, ma da una piccola cella con le luci al neon sempre accese, con le urla di dolore – fisico ed emotivo – delle centinaia di detenute nella sezione femminile del carcere di Evin, settore 209, come sottofondo costante.
Rientrata finalmente in Italia, Alessia Piperno ha voluto raccontare la sua esperienza in un libro dal titolo «Azadi!», che tradotto vuol dire «libertà!». Si tratta di un omaggio al movimento «Donna, vita, libertà!» sviluppatosi dopo l’atroce morte di Mahsa Amini, uccisa brutalmente dalla polizia morale iraniana per non aver indossato correttamente l’hijab nel settembre del 2022, proprio quando Piperno si trovava in Iran e poco prima di essere presa in ostaggio. Alessia Piperno questa sera alle 20.30 si troverà a Borgo Valsugana, presso la sala Lenzi della Comunità di Valle Valsugana e Tesino, per la presentazione del suo libro e per portare la sua testimonianza della situazione iraniana. L’ingresso all’evento, organizzato dall’associazione culturale Oltre, è libero e gratuito.
Alessia Piperno, partiamo dal principio. Come mai si trovava in Iran nel 2022?
«In quel periodo stavo facendo un viaggio nel Middle East, in particolare in Pakistan, Iran e Iraq. Mi trovavo lì per lavoro: sono un’agente di viaggio e organizzo viaggi per clienti americani, arabi e tedeschi. All’epoca notai che alcune mete stavano iniziando a interessare alcuni miei clienti e dunque la mia intenzione era di andare a scoprire in prima persona questi luoghi, per poi costruire degli itinerari da vendere ai miei clienti. Poi il mio lavoro nasce anche dal mio immenso amore per il viaggio: mi trovavo in Iran perché visitare questa terra era un mio grandissimo sogno. Sono stata in Iran per due mesi e mezzo prima di essere stata presa in ostaggio: il ricordo che ne ho è di un Paese incantevole, che cambia notevolmente da una parte all’altra. Le persone sono molto ospitali e generose».
Come è cambiata la situazione dopo la morte di Mahsa Amini e le proteste che ne sono susseguite?
«Da quel momento è emersa una faccia diversa del Paese. L’uccisione di Mahsa Amini, avvenuta semplicemente perché aveva dei capelli che le fuoriuscivano dall’hijab, è stata una notizia sconvolgente sia per noi turisti che per il popolo iraniano, abituato purtroppo a situazioni simili. Io non ho mai partecipato alle proteste, ma ciò che posso raccontare è che le manifestazioni cominciavano ogni giorno alle sei di sera: da quel momento in poi non si poteva uscire di casa. O meglio: chi usciva era soltanto chi partecipava alle proteste. I manifestanti non avevano armi, al massimo davano fuoco a delle bottiglie di plastica. La polizia, invece, gli sparava addosso».
Come e quando l’hanno presa in ostaggio?
«Era il 28 settembre, il giorno del mio compleanno. Mi hanno fermata insieme ai miei amici davanti all’entrata dell’escape room che avevamo prenotato per la serata. Ci hanno bendato gli occhi e ci hanno portati in prigione».
Quando ha capito che l’avevano portata a Evin?
«Quando sono stata presa in ostaggio non avevo idea di dove mi stessero portando. D’altronde nessuno mi ha detto nulla se non che mi avrebbero fatto delle domande e che in poche ore mi avrebbero rilasciata. Arrivata nella cella ho chiesto alle ragazze all’interno dove mi trovassi. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto: “Alessia, ti trovi a Evin”. Fu così che lo scoprii».
All’interno del carcere quali sono le condizioni che ha trovato?
«Nel carcere di Evin vieni privato di ogni diritto. Non sei nulla. Ti danno e diventi un numero. Ogni volta che lasci la cella, anche per andare in bagno, devi bendarti gli occhi. Si dorme per terra, senza alcun letto ma solo con una coperta. Le guardie non ti danno la carta igienica neanche per andare al bagno, non ti vengono dati gli assorbenti, si sentono perennemente le urla e le grida delle persone per le torture o per la disperazione. La moquette della cella è molto sporca, le luci sono accese 24 ore su 24 e sono composte da 628 faretti. Li ho contati a uno a uno».
Le sue compagne di cella per quali motivazioni erano finite a Evin?
«La persona che aveva commesso il crimine più grave aveva preso parte alle proteste. Ma c’erano anche persone che non avevano messo l’hijab o lo avevano messo male. Ricordo che c’era una ragazza di religione bahá’í, una religione molto comune in Iran ma che non è accettata. Un’altra ragazza era stata arrestata perché aveva un cane: in Iran si tratta di un’azione illegale, perché il cane è visto come un animale molto sporco. C’erano poi persone che avevano semplicemente scritto un tweet o uno stato su Instagram o su Facebook. Tutte cose che, da questa parte del mondo, non sono considerate crimini».
Ha mai temuto per la sua vita?
«Non proprio. Non ero preoccupata tanto per me, ma più che altro per la mia famiglia. Avevo paura che non la avrei più potuta rivedere. Le guardie mi dicevano che sarei dovuta rimanere lì per dieci anni. Per me era un’idea terrificante. Il mio pensiero era sempre orientato ai miei famigliari: ero molto preoccupata riguardo al come stessero gestendo la situazione, temevo che non reggessero il colpo».
Come le hanno comunicato che sarebbe tornata in Italia?
«Non me l’hanno comunicato. Semplicemente una mattina mi sono venuti a prendere nella cella e mi hanno detto di salutare le mie compagne perché mi avrebbero spostato da un’altra parte. Sono salita su un’auto, bendata come sempre, e mi hanno portata in aeroporto. Lì c’erano degli uomini dell’intelligence italiana che mi hanno comunicato che mi stavano riportando a casa».
Cosa ha provato?
«Da una parte ho fatto un grande sospiro di sollievo, perché l’incubo aveva avuto una fine. Però al tempo stesso ho anche provato un forte senso di colpa, perché tutte le altre persone erano ancora lì. Come si fa a gioire di un qualcosa che non è uguale per tutti ma è soltanto per me?».
Pensa che potrà tornare in Iran prima o poi?
«Tornarci ora è difficile. Avendo scritto un libro che è altamente illegale in Iran sono considerata a tutti gli effetti un’oppositrice politica. Se mi recassi lì verrei immediatamente arrestata. Ma comunque sono abbastanza certa che tornerò in Iran, perché questo regime prima o poi cadrà. E quando accadrà non avrò nessun problema a ritornare nel Paese, anche perché è tra i luoghi più belli che abbia visto. Ciò che mi è successo non dipende dal popolo iraniano, ma dal regime, che è qualcosa che gli sta molto sopra e che schiaccia gli stessi iraniani. Mi sento molto legata a loro, anche perché adesso la loro battaglia è diventata un po’ anche la mia».
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