L'intervista

mercoledì 12 Marzo, 2025

Gino Cecchettin: «Ho rimosso Turetta e la rabbia verso di lui. Soffro pensando che non ero lì con Giulia»

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Tappa a Trento del padre della giovane vittima di femminicidio. «Mi accusano di “lucrare sulla morte di mia figlia”. Anche solo pensarlo mi fa rabbrividire»

Le giornate di Gino Cecchettin sono un turbine, sull’agenda c’è a malapena spazio per aggiungere un nuovo impegno, gli appuntamenti, fitti fitti, scandiscono il ritmo della giornata, tanto che quasi manca il tempo per riprendere fiato. Eppure è proprio questa la vita che Gino Cecchettin ha scelto di fare, per trasformare in educazione e in amore il dolore generato dalla perdita della figlia Giulia, vittima di femminicidio per mano di Filippo Turetta, e forse anche per allontanarsi da quel dolore, per metterlo in un vaso sigillato, che se non c’è tempo non si può aprire. Gino Cecchettin porterà il suo messaggio a Trento in tre appuntamenti, il 13 marzo. La mattina incontrerà gli studenti e le studentesse del Liceo Da Vinci, alle 17 sarà alla facoltà di lettere per incontrare gli universitari e poi alle 20.30 sarà all’Auditorium Santa Chiara dove dialogherà con Barbara Poggio, prorettrice alle politiche di equità e diversità dell’Università di Trento e componente del comitato scientifico della Fondazione Giulia Cecchettin.

Gino Cecchettin da un anno ormai viaggia per l’Italia incontrando ragazzi e ragazze. Cosa racconta loro? Cosa le chiedono?
«Io racconto loro l’esperienza vissuta nel dopo Giulia. Tutto il dolore e la sofferenza che ha generato, ma anche il desiderio di battersi per una società priva di violenza che ne è nato. Trovo necessario, fondamentale e utile continuare su questa strada, per prevenire, per evitare questo dolore ad altri genitori. Giorno dopo giorno ho avuto la dimostrazione che c’è bisogno di questo, perché il fatto di parlarne, di sensibilizzare, aiuta le donne a trovare il coraggio a chiamare il 1522, a rivolgersi ai centri antiviolenza. Dai ragazzi e dalle ragazze mi prendo tanta speranza. Vedo in loro tanta voglia di farsi ascoltare, gridano le loro esigenze, hanno voglia di vivere e di avere certezza del futuro. Sono preoccupati dalla violenza che vedono intorno a loro, la guerra e non solo, e chiedono risposte a noi adulti».

Non basta il dolore innaturale della perdita di una figlia a fermare l’ondata di odio social, di cui spesso lei e sua figlia Elena siete stati bersaglio. Si è chiesto perché? È parte del problema?
«Penso proprio di sì, in un mondo che ormai è tutto profitto, tutto apparenza, il fatto che si faccia qualcosa per la società viene visto come anomalo, sospetto. Dicono: “Deve esserci un tornaconto” e se non c’è allora sei sospetto. Mi accusano di “lucrare sulla morte di mia figlia”. Anche solo pensarlo mi fa rabbrividire. Sembra quasi non sia concepita la gratuità di un gesto di generosità, sembra che l’altruismo non faccia più parte di questo mondo e non capisco perché. La socialità e l’altruismo hanno sempre determinato in Italia un momento positivo della società, quando c’è stato il bisogno qualcuno ha sempre prestato aiuto, penso ai volontari durante i terremoti o le alluvioni. Oggi questo spirito sembra affievolirsi e anche il volontariato di chi ha provato dolore non è più accettato. Perché si sospetta della gratuità e perché il concetto che vogliamo sradicare, il patriarcato, è profondamente radicato».

Ha seguito il processo anche nei passaggi emotivamente più faticosi, per esempio nelle ricostruzioni di Turetta. Ci sono stati momenti in cui ha pensato di non farcela?
«Non direi che è stato troppo duro. Perché prima avevo fatto un lavoro per rimuovere Filippo dalla mia vita, ho rimosso tutto quello che mi ha portato via e con questo anche tutta la rabbia che poteva nascere dalle sue azioni, di fatto ho cercato la mia risposta nell’amore. Però durante le udienze è riemerso tantissimo dolore, quello sì ed è stato difficile da gestire. Pensavo a quegli ultimi momenti di Giulia e io che non c’ero…».

Lei non ha mai parlato molto del processo, non ha chiesto pene esemplari o punizioni. Al momento della sentenza disse: «Abbiamo perso tutti».
«Perché cosa ho da chiedere alla giustizia? Come si può chiedere compensazione alla giustizia? Generare altro male in cambio del male causato non porta sollievo. Giulia non lo farebbe, risponderebbe al male con il bene ed è quello che stiamo cercando di fare con la fondazione».

Il suo libro racconta quello che ha imparato da Giulia ed è al tempo stesso un invito all’autenticità delle relazioni. Cosa si augura colgano i ragazzi e le ragazze che leggono il libro?
«Vorrei che le ragazze trovassero il coraggio di intravedere quando c’è la mancanza di libertà in una relazione, di denunciare una violenza, anche minima, il non permesso di andare a bere un caffè con gli amici, perché potrebbe liberarle da dolori maggiori dopo. Vorrei che i ragazzi capissero che l’uomo non deve essere un dominatore, il duro che non chiede e che non piange. Che esiste un modello di uomo che si emoziona, che è fedele alla sua parola, gentile ed è un modello che li farebbe vivere più pienamente».

La morte di sua figlia dimostra quanto la cultura patriarcale replichi sé stessa, di generazione in generazione. Cosa ha capito parlando con gli studenti in questi mesi? Questa catena si sta spezzando? Si fa fatica a usare questa parola: patriarcato?

«Lo noto, sembra quasi una parola tabù. Quando parlano del problema molte persone mi sembrano facciano dei voli pindarici assurdi pur di non dire patriarcato. Forse non li riconoscono come tale. Però basta guardare ai ruoli apicali nella politica e nel mondo privati per rendersi conto che c’è ancora un sistema di potere maschile. E il punto non è togliere potere a qualcuno, ma riequilibrare i rapporti, dare parità all’altro sesso. C’è una citazione della femminista e suffragetta Emmeline Pankhurst che lo spiega bene: “Lo scopo del femminismo è liberare metà della popolazione, le donne, affinché aiutino l’altra metà a liberarsi”».

I meccanismi di vittimizzazione secondaria sono subdoli e portano spesso a concentrarsi su quello che la vittima avrebbe potuto fare (o non fare). Cambiamo prospettiva: cosa avrebbe potuto fare una comunità e un sistema fatto di istituzioni, comprese le forze dell’ordine, per intercettare e fermare Filippo Turetta?
«Difficile da dire, perché le indagini per capire chi fosse Filippo Turetta e che percorso avesse iniziato sono durati mesi. È difficile capire come disinnescare i Turetta per tempo. Di sicuro bisogna educare i maschi, non solo i giovani, fargli capire come accettare il no, il rifiuto, e capire che hanno una scelta, che possono scegliere una vita che gli può riservare felicità. Filippo oggi poteva avere un lavoro, magari un’altra ragazza. Turetta in quel momento non aveva i mezzi per capire che era di fronte a una scelta. Dobbiamo dare ai maschi la capacità di comprendere che c’è una scelta da fare e che devono scegliere la vita. Poi chiaro servono i centri di ascolto per gli studenti e le studentesse, servono le forze dell’ordine, servono i centri antiviolenza, servono tante cose. Ma non so cosa si sarebbe potuto fare per fermare chi da tempo viveva in una spirale di solitudine. Forse potrebbe essere Filippo a dircelo».

In questi lunghi mesi ha trovato sostegno? Si sente supportato?
«Io ho avuto tantissimo sostegno, da tutti i volontari della fondazione, dalla mia famiglia, dalle istituzioni, dagli amici e dall’università di Giulia. Da tutte le persone che mi incontrano e mi ringraziano. oggi ero a Didacta a Firenze e anche qui tante donne, tanti maschi e tanti insegnanti mi hanno ringraziato per quello che faccio. Quando sono i maschi a farlo mi fa ancora più piacere e dico loro: “Aiutami perché siamo noi maschi a dover prendere la parola”».

Nel senso che siamo noi maschi a dover capire che il problema siamo noi, che è nostra la responsabilità?
«Esattamente, tutti i maschi dovrebbero diventare femministi».

Le capita di tornare a quei giorni di angoscia, ricerche e appelli? Quando ha capito che non c’era più speranza?
«Purtroppo sì, mi capita soprattutto quando passo nelle vicinanze dei posti in cui Giulia è stata aggredita ed è un dolore che non riesco ad affrontare».

Come trova conforto chi, come lei, è a sua volta vittima di femminicidio e al tempo stesso sopravvissuto? Di Giulia cosa le torna in mente?
«Sono quei piccoli ricordi che me la fanno rivivere, momenti di gioia effimera ma che mi fanno capire quanto Giulia mi abbia dato…».