Il reportage
domenica 20 Aprile, 2025
El Chaltén, Maestri, Salvaterra e quel filo rosso dell’alpinismo tra Patagonia e Trentino
di Simone Casciano
Avventura tra i ghiacciai patagonici e i racconti della gente del posto: «Per mesi con Salvaterra sotto il Cerro Torre»

Il sole splende freddo sopra le case di El Chalten. Qualche nuvola fa capolino dalla valle verso il paese coprendo parzialmente la cima del Cerro Torre e del Fitz Roy, ma il loro colore bianco non fa temere precipitazioni alle porte. Il vento, che in questa zona della Patagonia può soffiare imperioso, scardinare tende e alzarle in aria come fossero palloncini, per una volta è calmo. È l’occasione attesa da qualche giorno, una finestra di tempo sufficientemente buono per affrontare la Vuelta al Huemul, 4 giorni di trekking attraverso l’omonimo colosso patagonico con un obiettivo in mente: posare gli occhi sullo Hielo Continental, il gigantesco ghiacciaio continentale della Patagonia che si estende nelle Ande meridionali tra l’Argentina e il Cile. L’avventura più ambita di un viaggio in Patagonia che è stata anche la scoperta di un filo rosso, sottile ma forte, che collega El Chaltén, un piccolo paese alle pendici dei colossi andini, popolato da locali e alpinisti, con il Trentino. Zaini pesanti in spalla, dentro sacco a pelo, tenda, tanto cibo e un libro che non può mai mancare (in questa occasione «La strada» di Cormac McCarthy). Prima di partire una tappa speciale dal «Pajarito». Un signore di mezza età che dalla finestra di casa sua cucina e vende empanadas calde con pollo, verdure o manzo. Per il primo giorno il pranzo è di lusso.
L’avventura a pagamento
Chissà cosa avrebbe pensato Cesare Maestri se, zaino in spalla e con l’equipaggiamento al seguito, mentre si addentrava nelle valli che portano fino al Cerro Torre e alle altre montagne teatro delle sue leggendarie imprese, si fosse trovato davanti a una piccola casetta bianca con al suo interno un dipendente del parco pronto a chiedergli il biglietto per poter accedere alla sua avventura. Eppure è questa la realtà attuale nel Parco Nazionale Los Glaciares a cui si accede da El Chaltén. Una novità che non ha reso per nulla felici né gli alpinisti, né tantomeno gli abitanti del paese. Per le vie della città spuntano un po’ ovunque scritte e volantini che recitano «No al cobro obligatorio. Montanas Libres», segno della diffusa protesta verso la nuova misura. Per chi pianifica un’escursione di più giorni nel parco si arriva a pagare più di 100 euro a testa, ma non è una questione di soldi. «Se questi fossero fondi che vanno al parco nazionale o ai forestali per la cura dell’ambiente, dei sentieri o della flora e della fauna del parco non avrei nessun problema a pagare anche se lo trovo strano e penso che la montagna dovrebbe essere libera – commenta un escursionista durante la fila – Il problema è che sono tutti soldi che vanno direttamente al governo centrale dell’Argentina, qui non rimane nulla». «Anche qui iniziamo ad avere qualche problema legato all’eccessivo afflusso di turisti – racconta una guida locale mentre raccoglie i circa 40 euro d’ingresso necessari dai componenti del suo gruppo – Quindi idealmente una tariffa potrebbe servire per controllare i numeri e investire le risorse nella manutenzione e nella cura del parco. Il problema è che non è così, qui non rimane nulla. Questo è solo un modo facile per il governo di raccogliere soldi». Pagato il balzello si prende il sentiero per la Vuelta al Huemul, prima tappa Laguna Toro, dove trascorrere la prima notte.
Il canto dei ghiacciai
La Patagonia ti colpisce in faccia, basta avventurarsi fuori dalla foresta di faggi che protegge le tende alla Laguna Toro per capirlo. Un vento feroce si abbatte su chiunque provi ad avvicinarsi al fiume, anche solo lavare un piatto o sciacquarsi la faccia può trasformarsi velocemente in una doccia gelata non richiesta se non si fa attenzione. Il vento è il compagno, non richiesto, anche delle notti. Come chi vive vicino a una ferrovia con i treni che passano, bisogna imparare ad abituarsi alle raffiche che scuotono la tenda e ricordarsi di piantarla bene. Il secondo giorno comincia con l’avventura nell’avventura, una carrucola sopra il Rio Tunel da attraversare dopo aver messo in sicura sé stessi e lo zaino. Da lì è tutta una questione di forza di volontà e allenamento fino al Paso del Viento, 800 metri di dislivello senza tregua, con una ricompensa speciale all’arrivo: lo Hielo Continental. Non è facile navigare questo scenario glaciale, in cui il ritirarsi del ghiacciaio, lo spaccarsi della roccia e il rotolare delle morene cambiano costantemente forma all’abbozzato sentiero. In cima la fatica viene ricompensata: davanti agli occhi una distesa bianca in ogni direzione in cui l’occhio possa spingersi. Quando lo si scorge appena, lo Hielo Continental, può sembrare quasi un enorme lago. Impossibile per il cervello registrare subito che quella distesa immensa sia in realtà un ghiacciaio. Anche questo sta recedendo, ma la sua immensità riempie il cuore di una vitalità purtroppo ormai persa nei ghiacciai alpini. La seconda notte si trascorre al refugio paso del viento, si è separati dalla civiltà più o meno da due giorni di cammino in ogni direzione in questo momento, si respira a pieni polmoni un’aria rara e libera. Il terzo giorno lo si passa camminando affiancati dal ghiacciaio Viedma che nel corso della giornata comincia a degradare nell’omonimo lago. L’accampamento della terza serata, che arriva al termine di una delle peggiori discese mai tracciate nella storia dei trekking, è una gemma rara. Nella Baia de los Tempanos si pianta la tenda davanti a una laguna in cui, invece che barche o yacht, fanno capolino gli iceberg distaccati dal ghiacciaio Viedma. Con un po’ di fortuna si può assistere al momento in cui uno si capovolge.
«Tutti conoscono Trento»
Il quarto giorno si conclude vicino a un’estancia poco dopo il Rio Tunel, lo stesso fiume attraversato salendo al Paso del Viento deve essere valicato di nuovo, sempre in carrucola, a valle per tornare in paese. All’estancia ci aspetta il nostro padrone di casa Gustavo. Mentre ci riporta in paese chiede: «Di dove siete?». I trentini lo sanno: quando vanno all’estero far capire dov’è Trento è un’impresa. Si prova a parlare delle Dolomiti, se l’interlocutore non le conosce, si prova con «a nord di Verona, la città di Giulietta e Romeo» se anche quello non funziona ci si rassegna a dire «Tre ore a nord di Venezia» consapevoli che questo non restituisce nulla del luogo in cui si vive. «Ma certo che conosco Trento, tutti qui conoscono il Trentino» esclama Gustavo. Forse non dovrebbe stupire: Cesare Maestri, Cesarino Fava e Bruno Detassis qui hanno scritto pagine indelebili nella storia dell’alpinismo. E il legame del Trentino con questa terra non si è fermata qui. «Ho visto tante volte Ermanno Salvaterra durante le sue spedizioni – racconta Gustavo, che è anche guida alpina – Non abbiamo mai arrampicato assieme, ma l’ho visto tante volte. Abbiamo condiviso i campi alla base di tante montagne. Io e lui eravamo qui anche prima della nuova era di El Chaltén. Mi ricordo quando sia io che Ermanno eravamo qui alla fine degli anni ’80, a quei tempi il paese era minuscolo e vivevamo nei campi alla base delle montagne, al Rio Blanco, al De Agostini, e lì passavamo anche dei mesi. Ho condiviso molti momenti con lui e altri alpinisti, mentre aspettavamo il momento giusto per la scalata». Sembra incredibile, ma gli aneddoti di Gustavo si aggiungono quelli di tanti altri abitanti del paese, molti in un qualche modo legati al Trentino. Il luogo in cui è più evidente è al Patagonicus, bar ristorante nel centro del paese, gestito dai figli e dai nipoti di Cesarino Fava, a cui è dedicata anche una statua subito fuori, sulla strada principale del paese. Originario di Malè, il «Patacorta» (ma questa è storia per un altro giorno) è il vero responsabile di questo legame, l’uomo che per primo lanciò questo filo rosso tra le due parti dell’atlantico quando, da El Chaltén inviò a Maestri un celebre telegramma: «Caro Cesare non ci conosciamo, ma ho saputo della tua impresa – scrisse Fava nel 1957 – Vieni in Argentina, qui c’è pane per i tuoi denti». E oggi quella storia è orgogliosamente esposta sulle pareti del Patagonicus. Dalle foto, come se fossero ancora in parete, Fava, Detassis, Maestri, Salvaterra e tanti altri sembrano sporgersi e guardare al di sotto per vedere che succede nel locale e nelle strade, brulicanti di locali e alpinisti che condividono il loro stesso amore per queste montagne.
la storia
Di corsa per 161 chilometri, l'impresa a Venezia (in 24 ore) di Omar Franceschetti. «Sogno queste gare anche in Trentino»
di Valerio Amadei
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