la storia

sabato 26 Aprile, 2025

Morì 10 anni fa nel terremoto che colpì il Nepal, il figlio di Renzo Benedetti: «Due giorni prima della tragedia mi telefonò. Era emozionato»

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Marco Benedetti ha scritto un libro per ricordare lo scialpinista, istruttore del Cai: «Racconto papà e le sue vette: dal Perù all’Himalaya»

Ottomila morti e oltre ventimila feriti. Fu il pesantissimo bilancio del terremoto (magnitudo 7,8 della scala Richter) che alle 11.56 ora locale (le 8 e 11 minuti in Italia) del 25 aprile 2015 devastò il Nepal. Quattro le vittime italiane travolte da due slavine di neve e di sassi: i trentini Renzo Benedetti, 60 anni, da Segonzano; Marco Pojer, 53 anni da Grumes; Oscar Piazza, 55 anni da Mori; Gigliola Mancinelli da Ancona. Benedetti e Pojer stavano rientrando da un trekking assieme a Iolanda Mattevi, 52 anni, pure da Segonzano, e Attilio Dantone da Canazei.
Iolanda Mattevi, rimasta ferita, da un letto di ospedale a Katmandu raccontò all’Ansa: «Ho sentito un boato dietro di me, poi ho visto una nube che scendeva spinta da un vento spaventoso. Mi sono messa a correre, ma sono stata investita da una pioggia di pietre e neve».
Benedetti e Pojer avevano lasciato i due compagni di trekking, Mattevi e Dantone, per portare alcune medicine a una donna anziana, ammalata, che avevano conosciuto in una precedente spedizione. La frana che li travolse e uccise precipitò a 3.500 metri di quota nella Rolwaling Valley.
Renzo Benedetti (1955-2015), Accademico dei Cai, Istruttore nazionale del Cai di sci-alpinismo aveva arrampicato su tutto l’arco alpino, compiuto più di 3.300 itinerari con gli sci di alpinismo. Nel 1964 aveva cominciato le sue imprese in altri continenti con la conquista di tre cime di 6 mila metri in Perù: Alpamayo, Quitaraju e Artensoraju. Ma erano stati gli «ottomila» tra il Tibet e il Nepal a catalizzare maggiormente la sua passione: il Makalu, il K2, il Dhaulagiri, il Shisha Pangma, il Cho Oyu, l’Everest. Fino all’ultimo viaggio, quasi un’escursione, finita non già come corollario del rischio ma per un atto di altruismo.
Renzo Benedetti non era nuovo a slanci di generosità, come spesso accade tra gli uomini della montagna. Nel 2007, dopo aver raggiunto la vetta del Dhalaugiri, in Himalaya, stava scendendo verso il campobase. Scrisse Gianfranco Piccoli sul giornale «Trentino»: «”L’angoscia mi bloccava, le urla di Renzo mi hanno salvata”. Rosa Morotti, 39 anni, rocciatrice bergamasca, era paralizzata dal dolore. Il 29 aprile scorso è stata costretta ad abbandonare il cadavere di suo marito, Sergio Dalla Longa, sul Dhalaugiri. A portarla in salvo, dopo una discesa di otto ore, è stato il Trentino Renzo Benedetti. Ora l’alpinista della val di Cembra deve sottoporsi a un periodo di terapia in camera iperbarica a Bolzano per salvare le dita colpite da congelamento».
Ristabilito, Renzo Benedetti era tornato a frequentare le vette. Esattamente 7 anni dopo, la sua tragica fine a causa di un terremoto.
A dieci anni da quella sciagura Marco Benedetti, il figlio di Renzo, ingegnere, oggi 34 anni, ha dedicato al papà un volume, edito in poche copie: «Renzo Benedetti: dal Perù all’Himalaya. Parole e immagini di un viaggio lungo 30 anni».
Marco Benedetti, che ricordo ha del papà?
«Ricordo la passione della montagna nata fin da giovane e portata avanti con obiettivi sempre più impegnativi fino a conquistare le vette più alte del mondo. Ricordo i preparativi delle varie spedizioni; l’organizzazione meticolosa, l’attenzione ai dettagli, i momenti prima della partenza, le ultime raccomandazioni».
Quale è l’ultimo ricordo che ha di suo papà Renzo?
«È stata la telefonata, emozionante, due giorni prima della sua tragica fine, per raccontare i dettagli del trekking, della sua ultima spedizione. Anche se non importante, come quelle precedenti, per raggiungere un’altra vetta sull’Himalaya».
Con sua mamma, da chi avete avuto notizia della sciagura?
«Sono stati giorni movimentati. La televisione parlava del terremoto, di molte vittime nella zona dove sapevamo c’era papà. Abbiamo sperato finché è arrivata la conferma ai nostri incubi».
Le aveva trasmesso la sua passione per la montagna?
«Sicuramente la passione c’era prima della sua tragica morte. Tuttora vado in montagna: camminate, trekking, ferrate. Diciamo che la passione è rimasta; non al livello di mio papà. Tuttavia…».
Nel frattempo, lei si è laureato in ingegneria.
«Poco tempo dopo la sua morte sono riuscito a concludere gli studi. E questo, penso, sia stato un motivo in più per portare a termine i vari impegni che uno si prefigge di raggiungere».
Adesso lei fa l’ingegnere del comune di Ville di Fiemme. Dell’impegno di suo papà che cosa è rimasto?
«La passione per aiutare le popolazioni di quelle zone dove la precarietà è inversamente proporzionale alle vette. Aveva la passione per la vita, per le montagne, ma una sua caratteristica era quella di rimanere a contatto con le persone e scoprire le culture locali, la quotidianità. E questo lo appassionava proprio tanto…».
Con sua mamma avete dovuto aspettare molto tempo prima che fosse concluso l’iter burocratico della dichiarazione di morte?
«Un anno e mezzo circa. Hanno trovato i resti e papà è stato riportato a casa».
Che cosa è rimasto in Nepal di Renzo Benedetti?
«Viveva la montagna come fosse a casa. Diciamo che è rimasto là sulle sue montagne, come aveva fatto in tutte le precedenti spedizioni…».
Trent’anni di spedizioni che lei ha voluto raccogliere in un volume, con molte immagini e qualche testo recuperato dalla rassegna stampa su suo papà Renzo.
«Una parte della sua vita è qui a Segonzano, ma è rimasta anche altrove: dal Perù all’Himalaya. Ho condensato trent’anni di attività. Dalla prima spedizione nell’’84 in Perù è stato un susseguirsi di cime e di vette fino a raggiungere gli 8000 più importanti della terra. Si vede l’evoluzione dell’alpinismo dal punto tecnico come dei materiali; dalle cime più basse fino a raggiungere la vetta del K2. Un racconto che segue la cronistoria delle sue imprese con articoli e immagini. Un condensato della sua passione per la montagna».
«Nemo propheta in patria», nessuno è profeta nella propria terra, si diceva una volta. Eppure Segonzano gli ha dedicato un parco per bambini.
«È una grande soddisfazione che papà sia ricordato assieme a Walter Nones e Marco Poier. Due Cembrani in vetta al K2 lo stesso anno, se non è da record ci manca poco».