l'intervista
martedì 29 Aprile, 2025
Manolo, «il Mago» dell’arrampicata libera: «Avevo paura del vuoto. Il coraggio me lo sono costruito»
di Francesco Barana
Domani, a casa Sat, riceverà il premio 2025 all’attività alpinistica: «Ho evitato di farmi sopraffare dal protagonismo, altrimenti diventava troppo pericoloso»

«A volte mi chiedo come ho potuto fare determinate cose, al limite, pericolose. Noi alpinisti saremmo materia per un buon psicanalista». Maurizio Zanolla, detto Manolo «il Mago», prima pioniere e poi icona in Italia dell’arrampicata libera, ha il dono dell’ironia, il gusto del paradosso («dobbiamo dissacrarlo un po’ il nostro mondo, uscire dalla retorica della conquista della montagna, alla fine noi siamo uomini che saliamo anche per portare lassù in cima le nostre miserie»). Zanolla, 67 anni, è tra i protagonisti del Trento Film Festival: domani, a casa Sat, riceverà il premio Sat 2025 all’attività alpinistica; giovedì sera (alle 21), racconterà la «sua» Marmolada al teatro Sociale (biglietti in vendita su trentofestival.it). Zanolla inizia ad arrampicarsi a 17 anni, a metà anni Settanta, ma è dal decennio successivo che diventa un simbolo, lo spettacolare climber senza protezioni e corde del free solo.
Zanolla, allora per un attimo fingiamo di essere sul lettino dello psicanalista…
«I motivi per cui uno si arrampica possono essere tanti. C’è chi lo fa per soldi, chi per gloria, chi per disperazione. Chi per scappare, o per cercare qualcosa dentro di sé, per comprendere le cose in modo diverso. Chi per una forma di libertà».
Lei?
«Forse per fuggire. I miei genitori erano totalmente estranei all’alpinismo, lavoravano, a casa si sopravviveva e non c’era spazio per altro. Dunque, non ne sapevo nulla. E vivevo in pianura, dentro una conca, in mezzo ai boschi».
Lei è di Feltre.
«Ero attorniato da montagne non certo impegnative, che non lasciavano spazio all’immaginazione, mica erano le Dolomiti. Io volevo capire cosa c’era oltre quei monti, mi intrigava salire in alto, anche solo per vedere il mare. L’attrazione delle montagne è nata prima di iniziare a scalare».
Come ha cominciato?
«Tutto è nato per scherzo, un amico mi ha portato in una falesia e scoprii di essere particolarmente portato, da lì sono passato da una parete all’altra fino a cominciare con le montagne vere. Ero già bravo ad arrampicarmi, ma ancora non conoscevo ancora nulla di alpinismo».
Cioè?
«Non sapevo nemmeno chi fossero Messner e Bonatti, non frequentavo l’ambiente. Mi piaceva stare per conto mio, non ho mai cercato la competizione e la contaminazione. Ho sempre scalato per me stesso, per egoismo, per introspezione. Così, scevro da tutto, ho cominciato a farlo a modo mio. Volevo salire rispettando la montagna, era importante la qualità della scalata, da qui la scelta di non usare troppo i chiodi per superare una parete».
Coraggioso…
«Il contrario, avevo paura del vuoto…».
Addirittura?
«È stata una fortuna. Mi ha aiutato a gestire e frenare l’incoscienza. Avere paura è fondamentale: in primo luogo ti aiuta a essere più responsabile e a ridurre il rischio che possa finire in tragedia, poi imparare a governarla per me è stata una sfida interiore affascinante. Il coraggio l’ho costruito».
Ha parlato di responsabilità, paura e incoscienza. Mi sa che ha ragione: l’alpinismo è materia per psicanalisti…
«Noi siamo tutto questo, un po’ matti anche. Da giovane sei incosciente, è anche giusto, altrimenti vivresti in un involucro di vetro. Da giovane pensi che le tragedie non possono toccarti. Io volevo conoscere gli abissi delle montagne, ma anche i miei, ma ho evitato di farmi sopraffare dal protagonismo, altrimenti diventava troppo pericoloso. La responsabilità era un valore imprescindibile: non sfidavo la montagna, la rispettavo, dinanzi a essa mi sono sempre sentito piccolo. Questo mi ha permesso di rimediare anche agli errori, a volte ne basta uno, anche piccolo, ed è l’ultima cosa che fai nella vita».
Lei ha perso amici…
«Qualcuno è caduto dalla montagna, qualcun altro sotto le valanghe. È stato doloroso, ma non recrimino, perché so che, come me, avevano scelto questa vita. Mi rendo conto che è difficile da comprendere da fuori. La cosa più razionale a volte sarebbe tornare a casa, ma un alpinista non ragiona così. Noi scegliamo di compiere un viaggio meraviglioso, sappiamo che la fortuna poi è poterlo raccontare».
Lei saliva in free solo senza prima una lunga ricognizione con le corde…
«Non ho mai costruito una salita, ero attratto da una linea che affiorava, da un taglio di luce, da un’ombra che demarcava una linea. Questo accade nella fantasia di uno scalatore. Non prendevo troppe informazioni, mi lasciavo catturare da queste visioni e poi scoprivo man mano come trovare questa linea che immaginavo e farla diventare reale. Noi guardiamo le montagne diversamente dal turista».
Il quale oggi assedia la montagna. Non si sta esagerando?
«Siamo sempre di più e le montagne sono ormai accessibili grazie a strade, rifugi, funivie. È un problema perché la montagna non è per tutti. Gli incidenti aumentano, nonostante la tecnologia dia accesso a tante informazioni utili. Poi però c’è chi esce in trekking con l’allerta meteo, o chi va a duemila metri con le scarpe da ginnastica e in pantaloni corti».
Come se lo spiega?
«Non me lo spiego, o meglio: credo che siamo diventati arroganti, non siamo più capaci di rinunciare. Eppoi proprio la tecnologia ci rende meno prudenti, meno attenti, pensiamo che basti da sola. E così viene a mancare una vera conoscenza della montagna, il necessario spirito critico che ti aiuta a gestire l’istinto».