Cultura

domenica 8 Gennaio, 2023

Il Trentino ha una (sua) storia? Difficile una comune idea di destino

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Secondo Marcello Bonazza l’identità storica del Trentino è da sempre un nervo scoperto: «Si tratta di un dibattito ciclico, come un fiume carsico»

Il titolo incuriosisce e intriga: Il Trentino ha una (sua) storia?. È quello della conferenza che domani terrà Marcello Bonazza all’incontro di apertura dell’anno sociale della «Società di studi trentini di scienze storiche», di cui Bonazza è stato presidente dal 2010 allo scorso anno. Docente al liceo classico Prati, esperto di sistemi fiscali di Antico Regime e profondo conoscitore degli archivi familiari e comunitari di età moderna, Bonazza incarna quella generazione di storici che, dopo le dimissioni di Maria Garbari appunto nel 2010, introdussero un nuovo corso nell’associazione, nata nel 1919 con il Trentino diventato italiano (e dunque con una lettura storica consequenziale) e poi caratterizzata dal 1965 al 1993 dalla presidenza di Umberto Corsini, in un’ottica liberale e nazionale poi proseguita da Garbari. Ora la Società conta circa trecento iscritti, organizza mostre e convegni, è sbarcata sul digitale, pubblica due riviste semestrali: Studi Trentini. Storia e Studi Trentini. Arte.
E dunque: il Trentino ha o no una propria storia? Il tema, spiega Bonazza, era stato affrontato in un editoriale di Studi Trentini dall’allora direttore Emanuele Curzel ancora nel 2011. Vi si individuavano tre grandi narrazioni: la prima consisteva in un destino «italiano» del Trentino, che negli anni Sessanta e Settanta fece appunto da sfondo alle ricerche sulla storia locale; la seconda, successiva e già più debole rispetto alla prima, delineava un destino «autonomista»: un Trentino dunque in grado di sostenere una propria ambizione di autonomia sulla base delle peculiarità storiche che lo caratterizzerebbero, cioè la presenza di minoranze linguistiche e di comunità rurali; infine la terza narrazione, un destino invece legato a una collocazione pantirolese del Trentino: ed è quella che è stata perseguita e rilanciata negli ultimi anni, secondo cui le vicende di questa terra troverebbero la propria giustificazione nell’esistenza di una mitica comunità tirolese e nel suo farne parte (di qui, ovviamente, il revival hoferiano e degli Schützen, oltre a una certa lettura della Grande Guerra).
Va da sé che erano tutte narrazioni che Curzel mise in discussione, il che portò a un’ampia riflessione che ha trovato spazio sulla rivista della «Società di studi trentini», ma che si è anche concretizzata in iniziative di studio e ricerca, come un convegno sugli anni del passaggio tra il regime napoleonico alla provincia tirolese, oppure quello intitolato Arrivi, sulle migrazioni verso il Trentino nel corso dei secoli. «Tutto questo – spiega Bonazza – ha accompagnato, come un continuo sottofondo, tutta la nostra riflessione di giovani storici. E il titolo della mia relazione vuole essere un omaggio a quell’esperienza intellettuale, che costituì la base su cui abbiamo improntato il nostro lavoro. Al tempo stesso, però, vorrei che servisse anche a fare il punto su tutto ciò che io e altri in questi anni abbiamo elaborato».
Visto che nessuno dei «destini» identificati allora da Curzel ha pienamente attecchito, nella propria conferenza Bonazza partirà proprio da qui. «Sono tutti “destini” presenti nella storiografia, ma nessuno ha effettivamente trovato una sua qualificazione condivisa, a differenza di quanto accade in altre realtà territoriali e comunitarie. Una narrazione comune del Tirolo ad esempio c’è, del Veneto pure. Certo, dovere e diritto degli storici è porre dei cunei in ogni narrazione, specie quando queste semplificano la complessità. Ma è un fatto che, anche per i non specialisti, in Trentino c’è maggiore difficoltà nel leggere e raccontare la storia della comunità».
Perché questa difficoltà? Semplice: perché nessuna delle tre narrazioni è convincente al 100%. E così l’identità storica del Trentino è da sempre un nervo scoperto. Come ha dimostrato recentemente anche Giorgia Meloni, nelle dichiarazioni programmatiche in Parlamento alla nascita del suo governo, quando citò solo l’Alto Adige. E si riaprì un grande dibattito sul tema di sempre, quasi una piaga continuamente pronta a riaprirsi: cioè come giustificare l’autonomia della Provincia di Trento in una fase in cui, da un lato, la Regione di fatto non esiste più, mentre dall’altro si assiste al tentativo («un po’ patetico», commenta Bonazza) di rilanciare una comune appartenenza con il Sudtirolo, che invece non ne vuole proprio sapere. «È un dibattito ciclico, come un fiume carsico: tutti giù a riparlare di terzo Statuto… E allora mi sono chiesto: ma davvero il Trentino non è in grado di stare da solo? Non che lo desideri, sia chiaro, ma me lo chiedo da storico che osserva i fenomeni culturali: possibile che non sia ancora raggiunta una narrazione di questa terra che convinca all’interno e che in quanto tale possa essere “venduta” all’esterno?».
La conferenza di domani, spiega Bonazza, vorrebbe provare a dare una risposta a questa precisa domanda: come mai in Trentino non c’è stata la capacità di «sganciare» la propria storia da quella dell’Italia e del Tirolo, lasciandola invece appesa lì, all’una o all’altra, con inevitabili strumentalizzazioni a seconda delle diverse fasi politiche? E addirittura, oggi, con la conseguenza paradossale di proporre un’ulteriore narrazione «agganciata» ancora una volta ad altro: ed è la grande paura del Trentino ottava provincia veneta agitata come spauracchio con l’avvento di Fugatti in Piazza Dante. Una plastica dimostrazione della debolezza intrinseca del Trentino di elaborare una propria storia. E quindi?
Spiega Bonazza che proverà a buttare lì due possibili risposte. «La prima: il Trentino non ha una propria storia, stiamo cercando l’Araba fenice, mettiamocela via. Il che di per sé non va visto in negativo, perché questa consapevolezza potrebbe dare finalmente il via a una riflessione più matura partendo dal concetto di regione cerniera, questo sì punto di forza originale: lo considerano tale oggi anche molti storici non trentini, che vedono nella nostra terra un interessante laboratorio, dove accadono fenomeni interessanti proprio perché all’incrocio di culture diverse. E siamo stati proprio noi ad aver rimosso questi aspetti originali: basta pensare a Corsini, che parlava della storia del Trentino come di una “crosta grigia”».
Poi c’è la seconda risposta, pure con un certo gusto per la provocazione: «Una propria storia il Trentino ce l’ha eccome, ma non si è riusciti a definirla in una narrazione pubblica compiuta e convincente, che abbia cioè una intrinseca robustezza, per un difetto degli stessi osservatori». E quale sarebbe questo difetto? In termini metodologici, gli storici trentini non avrebbero avuto gli strumenti adatti per elaborare una narrazione. Ed è una questione sottile, per venire a capo della quale Bonazza fornisce una sorprendente chiave di lettura: servirebbe cioè un’indagine effettuata con strumenti propri degli studi post coloniali. Il che potrebbe sembrare un’ulteriore e maggiore provocazione, ma a pensarci bene non lo è affatto. Il problema starebbe infatti nella costruzione psicologica di un popolo che, a cavallo del Novecento, è stato in lotta prima per l’autonomia dal Tirolo e poi per l’autonomia dall’Italia, quasi fossero due forze occupanti colonizzatrici: due lotte, si sa, finite male entrambe.
Tutto questo mentre, secondo Bonazza, alcuni aspetti identitari forti il Trentino li avrebbe eccome: «Piaccia o non piaccia, il Trentino è stato per ottocento anni un piccolo Stato, il Principato vescovile, e Trento una città con un ruolo importante rispetto al Veneto e al Tirolo. Questo piccolo Stato ce lo siamo dimenticato, d’altra parte era un po’ imbarazzante per storici e politici, proprio perché non portava acqua al mulino delle rispettive narrazioni». E visto che tra quattro anni si celebrerà il millenario proprio della fondazione del Principato vescovile, Bonazza lancerà un piccolo appello agli storici, ma se ci sarà anche all’assessore alla cultura Mirko Bisesti: «In questo caso sì, guardiamo al Veneto, che ha costruito una narrazione vincente in chiave autonomistica utilizzando proprio la vicenda della Repubblica di Venezia: se il gioco è questo, e lì ha funzionato, mutatis mutandis facciamolo anche noi, no?».