L'intervista
martedì 25 Ottobre, 2022
di Simone Casciano
Ceri risponde al telefono durante una pausa della sua partitella mattutina in un campetto alle porte di Milano, vicino a casa sua. Preferisce tenersi in allenamento così, giocando a basket anziché andando in palestra. È un piccolo dettaglio ma che dice molto di un ragazzo che ha sempre inseguito le sue passioni e, tra queste, prima tra tutte la musica. Classe 1990 Stefano Ceri, in arte Ceri, è produttore e demiurgo dello street pop italiano. Sin da piccolo studia pianoforte, frequenta il conservatorio di musica elettronica e si fa le ossa come produttore nella scena rap trentina prima di approdare a Milano, produrre artisti del calibro di Coez, Frah Quintale e Franco 126 e conquistare la musica italiana.
«Oddio conquistare no eh non ci tengo, voglio solo fare musica (ride) non ci sono in programma referendum di annessione di tutta la musica italiana».
Ormai lei vive a Milano da tanti anni: quanto è stato fondamentale questo trasferimento per la sua carriera?
«Moltissimo, Trento mi manca ma Milano è l’unico luogo in Italia dove tocca effettivamente stare per lavorare nella musica. È uno spostamento permanente, ormai ho la residenza qua e ho anche votato per il sindaco».
Lei si sente di essere stato protagonista della nascita di un nuovo genere musicale in Italia con i suoi lavori degli anni scorsi?
«Non direi che l’indie sia un genere, non ci sono necessariamente canoni musicali comuni, ad accomunarci è stata l’indipendenza. L’indipendenza dalle major e dal loro modo strutturato di fare musica. Il pubblico era stanco della musica da radio prodotta in serie secondo una formula standard e in quel contesto gli artisti indie sono stati un elemento di rottura. In questo Calcutta è stato forse il più prorompente. Quello ha dato a tutti la possibilità di sperimentare penso, per esempio, ai pezzi che ho fatto con Frah Quintale».
Come lo dobbiamo definire allora, Indie? It-Pop? Street-Pop?
«Preferirei non dire niente (ride), è proprio quello il punto no? Faccio fatica a riconoscere un genere musicale, ogni disco e ogni pezzo sono lavori a sé. È vero anche che l’indie esisteva già prima di questa onda, i generi servono più all’industria per categorizzare il pubblico e il prodotto, la musica è un’altra cosa».
Si può però identificare un filone di cui fa parte anche lei e che arriva in quel contesto musicale provenendo dalla scena rap?
«Sì, effettivamente diciamo che i tre nomi più importanti con cui ho lavorato – Coez, Frah Quintale e Franco 126 – vengono tutti e tre dalla scena Hip Hop come me.
Non credo che sia un caso perché alla fine il rap è il linguaggio più forte e onesto che ci sia, perché è un genere musicale che esiste e resiste e soprattutto domina da quarant’anni nel mondo. Noi siamo stati bravi a coniugare quel linguaggio con una forma artistica più italiana e portarla quindi a un pubblico più grande».
C’è stato un momento in cui lei si è reso conto che stava nascendo qualcosa di nuovo?
(ci pensa) «Direi quando è uscito il singolo di Coez Ali Sporche (prodotto da Riccardo Sinigallia, ndr) un pezzo ibrido tra Rap e cantautorato italiano che mi ha colpito molto, non tutti lo hanno capito subito. Coez stesso si è preso parecchi insulti dalla sua fan base per questo cambio. Poi dopo no, anzi mentre fai le cose speri solo che qualcuno le ascolti non hai pretese di rivoluzionare la scena musicale».
E da quel momento nasce anche il suo primo lavoro fuori dal Rap?
«Sì Niente che non va di Coez (2015). Lo abbiamo scritto a casa mia a Trento. Lui non riusciva a trovare l’ispirazione per il nuovo album così l’ho invitato in Trentino.
Siamo stati lì cinque giorni, la mattina giravamo per il centro e poi la sera ci chiudevamo in casa e registravamo i pezzi con i materassi sulle pareti per insonorizzare la stanza e il microfono distrutto come quando registravo le tracce assieme i miei amici delle superiori. Praticamente mezzo disco è nato lì e poi abbiamo deciso di lavorarci insieme,anche se siamo dovuti ripartire quasi da zero perché mi avevano rubato il pc».
Un altro album con una bella storia alle spalle è quello di Frah Quintale
«Sì, però va fatta una premessa».
Cioè?
«Che in quel periodo io e Tommaso Fobetti abbiamo fondato la nostra etichetta: “Undamento” con cui abbiamo creato il nostro studio di registrazione dove abbiamo prodotto prima l’album di Coez e poi quello di Frah Quintale».
E com’è lo studio?
«Underground ma proprio letteralmente perché siamo sottoterra (ride). È bello perché non si registra e basta ma si è creata una vera comunità di musicisti e interessati che lavorano tutti assieme e si confrontano e si può sempre trovare un consiglio su quello a cui stai lavorando».
E perché questo è importante per l’album di Frah Quintale?
«Perché non è nato come un album, erano dei pezzi singoli che buttavamo fuori e ci siamo resi conto che funzionavano e alla fine abbiamo fatto una maxi-compilation chiamata “lungo linea”. È stato un periodo assurdo, Frah Quintale viveva letteralmente sul divano dello studio di registrazione perché stava scannato. Quindi lui passava le notti a scrivere e io poi arrivavo la mattina e mettevamo insieme i pezzi, siamo andati avanti così quasi per un anno».
Le situazioni assurde insomma aiutano la creatività?
«Anche nella storia alcune delle cose migliori nascono da situazioni scomode o errori. Però credo che quando sei in difficoltà sei onesto e libero nelle cose che scrivi e questo arriva alle persone».
Sembra che si sia un’altra storia qua.
«Ricordo che una volta arrivammo negli studi di Radio2 per registrare la puntata di Babylon con Carlo Pastore, dovevamo fare il live di “Nei Treni la notte” e quando entrammo negli studi vidi questo pianoforte a coda bellissimo. Inizio a suonarci e ha un sound pazzesco, allora ne parlo con Frah Quintale e convinciamo quelli della Rai a farci fare una versione acustica piano e voce. Non so neanche come hanno fatto a portare quel pianoforte nello studio, forse ce lo hanno direttamente costruito intorno (ride) però ne è venuta fuori una versione bellissima».
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Con Frah Quintale poi avete cominciato anche a fare i live?
«Si con Frah siamo partiti da posti minuscoli, ci si doveva arrangiare, abbiamo messo su un live minimale perché non avevamo i mezzi. Uno dei primi concerti è stato alla vecchia Accademia in centro a Trento e ci saranno state a malapena 20 persone, era stato bellissimo. Alla fine Trento torna sempre in qualche modo».
Bello però insomma all’inizio i live non stavano andando bene?
«Si dopo un po’ di date anonime è arrivato un momento in cui ci stavamo chiedendo se avesse senso andare avanti. Poi però una sera siamo arrivati a Montelupo Fiorentino, posti massimi 200 persone in una specie di garage. Se ne presentarono 800 e dovemmo sgomitare per arrivare al palco, abbiamo capito che qualcosa era cambiato».
Dopo sono arrivati anche i festival, ce n’è uno a cui è più affezionato?
«Quando con Frah Quintale ci hanno finalmente invitati al Mi Ami Festival (2018 ndr), perché è un evento a cui andavo tutti gli anni sognando di poterci suonare. Ci siamo esibiti sul palco della collinetta, il più suggestivo dell’evento, ed è stato uno dei nostri concerti più belli perché secondo me è un festival unico in Italia ha un qualcosa di magico, poi ci ho suonato di nuovo con Franco 126 e quest’anno per la prima volta da solo ma ha piovuto di brutto».
E a Trento?
«Sono stato al Poplar quest’anno: è un festival fighissimo! Non lo dico solo io anche tantissimi colleghi in tutta Italia. Quest’anno ha fatto tremila persone tutte le sere e ti dice di quanto anche a Trento ci sia voglia di musica e di divertimento. La cosa che mi è piaciuta tanta del Poplar è che il pubblico restava lì ad ascoltare tutti i concerti indipendentemente da chi suonasse, era un pubblico interessato alla musica e non ai nomi e non è una cosa che si vede sempre in giro».
Negli ultimi anni ha prodotto anche i suoi primi pezzi personali?
«Si nel primo (Solo 2019 ndr) ho anche provato a cantare lavorando molto sulla voce in post-produzione, nel secondo (Insieme 2021 ndr) ho chiamato molti amici e ora il terzo, WaxTape, è un mixtape di musica da club un mondo che mi sto divertendo a esplorare».
E adesso a cosa sta lavorando?
«Sto producendo il disco di Irbis 37».
Calcutta recentemente ha detto che l’indie è finito sei d’accordo?
«Quel momento è finito, perché dopo il successo è arrivata la saturazione del genere stereotipandolo e facendogli perdere quella cifra di libertà e indipendenza che ne aveva generato il successo. Si è persa anche perché molti degli attori di quella pagina fondamentale hanno perso la loro indipendenza. Però in un’estate in cui molti hanno faticato con i concerti Frah Quintale ha fatto molte date da tutto esaurito».
È un problema generale?
«Un po’ sì, si è persa anche la voglia di fare musica, vedo che molti ragazzi giovani sembrano più interessati ad avere successo, cioè vedono la musica come il mezzo per il successo non il fine. Però questa fobia di piacere ti porta a non piacere. Non ci sono calcoli da fare per fare musica. La cifra di quel momento unico è stata “gente che non aveva idea di cosa stesse facendo ma l’ha fatto lo stesso».
Certo che da “Rude e Reale” e gli struscio party a Coez e il Mi Ami Festival di strada ne ha fatta!
«A parte che uno struscio-party tornerei a farlo volentieri, comunque non penso di essere arrivato e non mi interessa, a me piace fare musica e continuare a farla, il fatto che sia diventato il mio lavoro mi rende felice e mi ritengo molto fortunato».
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