la storia
mercoledì 8 Febbraio, 2023
di Daniele Benfanti
Raoul Pupo, a lungo docente di storia contemporanea all’Università di Trieste, è lo storico che più di tutti ha il merito di aver portato alla giusta dimensione storica e con approccio scientifico i sanguinosi eventi che hanno caratterizzato il confine orientale d’Italia, nell’Alto Adriatico, durante e dopo la seconda guerra mondiale. L’Adriatico, qual mare «intimo» – come l’ha definito Predrag Matvjević, il grande intellettuale e slavista nato a Mostar nel 1932 (Bosnia) e scomparso 6 anni fa – ma anche sorprendentemente sanguinoso, tanto che lo stesso Raoul Pupo ha intitolato un suo libro di due anni fa «Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza». «Amarissimo» è un’espressione dannunziana. «Le terre dell’Adriatico orientale – scrive Pupo – sono state uno dei laboratori della violenza politica del Novecento: scontri di piazza, incendi, ribellioni, squadrismo, conati rivoluzionari, stato di polizia, persecuzione delle minoranze, terrorismo, condanne del tribunale speciale fascista, pogrom antiebraici, lotta partigiana, guerra ai civili, stragi, deportazioni, fabbriche della morte come la risiera di San Sabba, foibe, sradicamento di intere comunità nazionali». Ed epurazioni e caccia ai dissidenti fino al 1956. Ecco: il dramma delle foibe rischia di inghiottire tutte le altre tragedie vissute dalle genti di queste terre. Quelle violenze rischiano di esaurire il significato del Giorno del Ricordo che il parlamento italiano nel 2004 ha istituito per legge, per ricordare il 10 febbraio del 1947 (Trattato di Parigi, con cessione di Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia). Perché le foibe sono solo la punta ormai nota e riconosciuta di un iceberg di violenza che ha le sue radici molto più in profondità nelle acque dell’«intimo» Adriatico nord-orientale. «Quando si parla di foibe – spiega Pupo nel volume del 2003, che ha dedicato al tema – ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia. Le foibe sono gli inghiottitoi naturali tipici dei terreni carsici, che precipitano nel sottosuolo spesso per decine di metri, con pozzi verticali e ripetuti salti». Inghiottitoi che le popolazioni locali utilizzavano per sbarazzarsi di ramaglie o oggetti dismessi, e che dopo l’8 settembre del 1943 (caduta del fascismo) e alla fine della Seconda guerra mondiale (crollo del dominio nazista) furono utilizzati per far sparire persone: pulizia etnica contro gli italiani, regolamento di conti, vendetta, sterminio programmato, violenze gratuite, anche criminalità comune. E in più l’esodo forzato di oltre 300mila italiani da Istria, Fiume e Dalmazia. Roberto De Bernardis è presidente dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, comitato di Trento. È nato a Pola, capoluogo dell’Istria, nel 1949. All’età di cinque anni fu costretto a lasciare la sua terra, divenuta Jugoslavia, insieme alla famiglia.
Presidente De Bernardis, ricorda quell’esodo o gliel’hanno raccontato in famiglia? E come arrivò in Trentino?
«Partimmo in treno da Pola, direzione Lubiana, poi Trieste e Udine. Lasciammo l’Istria in base alle opzioni. Fummo portati in un campo nei pressi di Altamura, in Puglia, in un’ex caserma che il ministero della difesa aveva ceduto a quello degli interni. Quali esuli istriani, dovevamo rimanere all’interno, circondati dal filo spinato. Poi ci trasferimmo a Genova, dove mio padre tornò a fare il marittimo, come a Pola. Abitammo a Busalla, nell’entroterra ligure, e poi a Genova. Ho studiato sociologia a Trento e poi sono diventato funzionario della Regione qui, nel 1982, prima al tavolare e poi all’ufficio minoranze linguistiche. Mia moglie è trentina».
Lei racconta spesso che sua madre sorrise per la prima volta solo nel 1985, alla nascita di suo nipote. Per tutti i 30 anni precedenti non pensò ad altro che a ricomporre la diaspora familiare…
«Sembra una storia da romanzo tragico. Adulti che perdevano la casa, il lavoro, le abitudini, gli amici. Costretti a lasciare l’Istria solo perché italiani. L’Italia ci ha accolti come poteva. Gli esuli adulti avevano come unico pensiero la preoccupazione di costruire un futuro per i figli e non perdere i legami con altri familiari finiti in altre città o esuli all’estero. All’epoca non c’era certo Internet o i voli low cost».
Il dramma degli esuli giuliani, istriani, fiumani e dalmati è stato vissuto da loro stessi in silenzio per decenni, fino all’alba del nuovo millennio. Perché?
«Si voleva cancellare il passato per pensare al futuro. I miei faticavano a raccontare. Qualche volta mia nonna, esule a Como, cedeva a qualche aneddoto riferito al tempo in cui vivevamo a Pola. Ci si scriveva con i parenti della diaspora. Ma mia nonna nell’ingresso di casa teneva un disegno di un suo figlio morto, che ritraeva il campanile di Rovigno».
L’Italia ha considerato voi esuli dal confine orientale – italiani a tutti gli effetti – in qualche modo «italiani di serie B»?
«Questo è accaduto per molti. Non si voleva dire di essere esuli. C’era il timore di essere considerati estranei. E subito etichettati come fascisti, solo per essere italiani delle terre perdute. Io dicevo di essere genovese. Sulla carta d’identità, però, ho scritto nato a Pola, Jugoslavia, prima, Croazia poi. Perché sono nato nel ’49 e non prima del settembre ’47. Per noi optanti un pugno nello stomaco. A Busalla, dove ho fatto elementari e iniziato le medie, un esule fiumano è diventato sindaco. E noi istriani abbiamo insegnato a giocare a pallavolo e pallacanestro ai locali».
Il lungo inverno della rimozione e della negazione delle foibe e delle violenze contro gli italiani nella Jugoslavia post-bellica è finito?
«Si vedrà in futuro. Ma ciò che fa ben sperare è che anche la Croazia è nell’Unione Europea da dieci anni e ora anche nell’euro. Gorizia e la slovena Nova Gorica sono insieme capitale europea della cultura nel 2025. Il presidente italiano della Repubblica, Sergio Mattarella, e l’ex presidente sloveno Borut Pahor nel 2020 hanno commemorato dandosi la mano le vittime delle foibe a Basovizza. Pahor è stato il primo capo di stato di paesi nati dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia a partecipare a una cerimonia alle foibe».
Perché il Giorno del Ricordo, da quasi vent’anni, rappresenta un punto di svolta nel rendere giustizia al dramma delle vittime delle foibe, dell’esodo, della pulizia etnica?
«Ci ha consentito di uscire fuori da un silenzio durato sessant’anni. Fino ad allora anche gli storici non riuscivano a pubblicare nulla sull’argomento. La Jugoslavia non aveva certo interesse a parlarne: voleva dimostrare che quelle terre erano etnicamente slave. Ma anche l’Italia: avrebbe dovuto ammettere di aver perso, in realtà, la guerra e quelle regioni. Non voleva rompere con Tito, che era un alleato rispetto a Stalin nella guerra fredda. C’era il senso di colpa del Pci, che non poteva dire che i comunisti slavi si erano macchiati di grandi violenze. Ci sono stati gli errori della destra, che ha strumentalizzato la vicenda solo a scopi nazionalistici».
Trentino e Alto Adige hanno avuto l’autonomia speciale. Perché per il confine orientale l’Europa, alla fine della guerra, l’Italia di Degasperi non è riuscita a elaborare una soluzione intelligente e pacifica anche per quelle terre?
«Perché Italia e Austria erano due democrazie. La Jugoslavia no: era in piena rivoluzione socialista, doveva imporre un nuovo sistema e eliminare non solo i fascisti, ma chiunque avesse capacità di gestire e influenzare la popolazione: maestri, intellettuali, parroci. Su quel fronte era già in atto la guerra fredda e a decidere erano Stati Uniti