la storia
lunedì 13 Marzo, 2023
di Simone Casciano
Zarko Malala aveva lasciato il Trentino nel 2014, grata per le amicizie costruite e il percorso fatto, per tornare in Afghanistan e le era sembrato più un addio che un arrivederci. Invece ora, a 34 anni, è tornata a Trento e qui sta cominciando la sua quarta vita, l’ultima si augura, sperando finalmente di mettere radici e di poter chiamare un luogo casa. La prima vita di Zarko era stata quella dalla sua nascita fino al 2007, trascorsa prima in Pakistan e poi in Afghanistan a Kabul. Da lì era partita alla volta di Trento dove, grazie a una borsa di studio, si è laureata in Economia e gestione aziendale. Poi la decisione di tornare a casa, fiduciosa della direzione intrapresa dal suo Paese, per mantenere fede alla promessa fatta ai genitori e per contribuire al processo democratico dell’Afghanistan. Prima il volontariato, poi il lavoro presso il ministero delle finanze e intanto il matrimonio e i figli, due, un maschio e una femmina. Tutto sembrava andare per il meglio per Zarko Malala e per il suo Paese, fino all’estate del 2021 e all’avanzata improvvisa dei talebani che ad agosto erano già alle porte di Kabul.
Sradicamento, parola strana, lo psicologo Renos Papadoupolos, che in Inghilterra ha lavorato a lungo con i rifugiati, lo definisce «dislocazione involontaria». Interpretazione che però perde il carattere aspro che la parola sradicare porta con sé, quelle radici non sono solo dislocate, ma strappate. E proprio uno strappo è stata la fuga di Zarko, di suo marito e dei suoi figli da un Afghanistan, quello del 2021, che in pochi giorni aveva cambiato volto ed era diventato pericoloso. Un viaggio che li ha riportati a Trento.
Zarko Malala, innanzitutto come state lei, suo marito e i suoi figli?
«Adesso stiamo bene. Abbiamo ricevuto la protezione internazionale, ringrazio l’Italia per quello che ha fatto per la mia famiglia. Mia figlia, di 5 anni, va all’asilo e mio figlio, 2 anni, ci andrà l’anno prossimo. Mio marito sta facendo il corso da saldatore. Io ho trovato un lavoro e intanto ho vinto una borsa di studio per proseguire i miei studi all’Università di Trento con un master in International management».
Facciamo un passo indietro com’era la vostra vita a Kabul?
«Era bella, c’era tantissima speranza. Tante persone che, come me, avevano studiato fuori dal paese, e avevano lì una buona vita, erano tornate fiduciose nel percorso che l’Afghanistan aveva intrapreso. Le donne si erano emancipate e iniziavano a ricoprire ruoli importanti. Costruivamo nuove infrastrutture, ospedali, scuole e università».
Poi il ritorno dei talebani. A Kabul arrivarono il 15 agosto del 2021, cosa ricorda di quel giorno?
«Non ci credevamo che tutto succedesse così in fretta. Ricordo che mi stavo preparando per andare in ufficio quando mi arrivò la chiamata di un collega che mi disse: “Non andare a lavoro, sono entrati i talebani e hanno preso il controllo degli uffici”. Non ci volevo credere, ho acceso la tv e visto le immagini, era tutto vero. Ero in choc, come aver perso la vita, come se ti strangolassero in silenzio e tu non potessi reagire».
Avete deciso subito di andare via?
«Sapevamo che, avendo lavorato per il governo, eravamo in pericolo. Abbiamo preparato uno zaino con i documenti, le cose preziose e cibo e vestiti per i bambini. Poi ho dovuto cancellare dal mio telefonino qualunque cosa che potesse metterci in pericolo: documenti legati al mio lavoro, ma anche le foto di una festa con amici, i contatti dei miei conoscenti stranieri. Abbiamo passato circa 10 giorni chiusi in casa. Poi grazie a degli amici italiani abbiamo saputo che potevamo partire, ma dovevamo raggiungere l’aeroporto di Kabul e non è stato facile».
Perché?
«Perché i talebani erano ormai ovunque, armati e pericolosi. Non permettevano alle persone di raggiungere l’aeroporto. Abbiamo dovuto guadare un fiume, ci siamo bagnati, non siamo riusciti a cambiarci i vestiti fino a quando non siamo arrivati in Italia. All’aeroporto sembrava il giorno del giudizio, c’erano tantissime persone, ci siamo presi per mano per non perderci. La situazione lì non era facile, gli aerei non partivano e c’era questa grande massa di persone che aspettava. Ad un certo punto i soldati americani ci hanno detto che avevano saputo del rischio di un attacco terroristico e che spettava a noi decidere se rimanere o andare via. Siamo rimasti, tornare indietro avrebbe significato solo morire. Alle 8.30 sono venuti i militari italiani per dire che partiva il volo italiano. Ho sventolato una cartellina blu come mi avevano detto, ci hanno visto e siamo riusciti a imbarcarci, per fortuna, era l’ultimo volo per l’Italia. Qualche ora dopo la nostra partenza ci fu l’attentato all’aeroporto del 26 agosto in cui morirono tante persone (almeno 183 ndr)».
La sua famiglia è ancora in Afghanistan?
«Sì, molti sono ancora lì. Le cose vanno sempre peggio»
Sulla nave naufragata a Cutro c’erano molti afghani, lei capisce perché hanno deciso di partire pur sapendo i rischi?
«Mi dispiace tanto per quello che è successo, certo che capisco. È stato un po’ come per noi in aeroporto, sapevamo del rischio ma che alternative avevamo? Tornare indietro significava morire. Ogni giorno in Afghanistan muoiono molte persone uccise dal regime. Chiunque abbia lavorato con il governo è a rischio. E anche se non sei perseguitato muori di fame, ci sono miei colleghi al ministero che ora vivono per strada e fanno l’elemosina perché non possono più lavorare».
Siete arrivati a Trento ormai da un po’, sperate di fermarvi qui?
«Si è proprio così, spero che la mia quarta vita sia quella definitiva e di poter dire che Trento è la nostra casa per sempre. Saremo molto fortunati se sarà così».