Grande guerra
mercoledì 2 Novembre, 2022
di Alberto Folgheraiter
I trentini, austriaci di lingua italiana, furono costretti a partire per la guerra nell’estate del 1914. Dei 12.700 morti trentini con la divisa grigio-azzurra dell’esercito di Cecco Beppe (com’era popolarmente chiamato l’imperatore di Vienna), oltre settemila finirono al cimitero nei primi due mesi della Grande guerra. Furono sotterrati in Galizia, la regione formata dai territori della Polonia meridionale e dell’Ucraina occidentale. Cracovia, Przemyśl, Leopoli sono nomi di città che subirono a più riprese gli assalti e l’assedio delle armate dello Zar di tutte le Russie. Con centinaia di migliaia di morti, prigionieri, dispersi da entrambi le parti in conflitto.
Di 350 mila abitanti del Trentino, furono 60 mila gli uomini, dai 18 ai 54 anni, chiamati a combattere per la corona degli Asburgo.
L’Italia entrò in guerra contro l’Austria il 23 maggio 1915 con la scusa di voler aggregare sotto la corona dei Savoia le popolazioni di lingua italiana dell’impero danubiano. Nei mesi precedenti, mezzo Trentino (escluse la val di Non e la val di Fassa) era stato offerto all’Italia purché restasse neutrale. Ma, come si seppe solo nel 1917 dai Bolscevichi che avevano preso il potere in Russia, il 26 aprile del 1915, il capo del Governo italiano, Salandra, e il ministro degli esteri, Sidney Sonnino, avevano stipulato un accordo con Francia, Gran Bretagna e Russia. Presero la decisione all’insaputa del Parlamento, quindi fu una sorta di colpo di Stato. Impegnarono l’Italia a dichiarare la guerra all’Austria entro un mese. E così fu.
Il 24 maggio 1915 il Trentino meridionale divenne “zona nera”. Un terzo della popolazione fu allontanato dai villaggi lungo il fronte con l’Italia: 70 mila donne, vecchi e bambini furono evacuati nelle baraccopoli dell’Austria e della Moravia; 40 mila finirono sfollati in 286 località del regno dei Savoia.
La Grande guerra finì nei primi giorni di novembre del 1918.
Finì per fame e perché, nei territori della corona di Vienna, c’erano due milioni di morti a causa di una pandemia indicata come «febbre spagnola».
Anche in provincia di Trento il contagio stava facendo strage ma la censura militare impediva notizie dettagliate.
La guerra finì con l’occupazione militare del Trentino e con l’annessione, dieci mesi dopo, sotto il re Vittorio Emanuele III. Il Trentino faceva parte di quel «bottino di guerra» promesso all’Italia dalle nazioni della Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) con il patto di Londra del 26 aprile 1915.
Non fu una «redenzione» come si fece credere per molto tempo dalla retorica fascista che subito si impossessò dei vivi e affidò i morti – italiani con la divisa austriaca – alla «damnatio memoriae” di una tomba senza nome.
I nostri nonni e bisnonni, nonostante tutto ancora devoti alla casa d’Austria, dissero che erano divenuti «taliàni ciapàdi col s-ciòp» (italiani presi col fucile) e anche «taliàni al 40 per zento» (italiani al 40 per cento) poiché al cambio di nazionalità e di moneta, la corona austriaca era stata valutata 40 centesimi di lira.
Del resto, la popolazione di qui non era stata trattata meglio dal governo degli Asburgo, secondo quanto denunciò il deputato popolare Alcide Degasperi al parlamento di Vienna, il 4 ottobre 1918, un mese prima della capitolazione dell’Austria-Ungheria. Dichiarò che il governo austriaco aveva «scatenato sul Trentino, con la fine di maggio (1915), una persecuzione di ferro e fuoco senza riscontri nella storia».
Dalla tribuna del Reichsrat, il Parlamento di Vienna, riaperto dopo tre anni, l’on. Alcide Degasperi aveva tracciato un quadro drammatico: «Dei 350mila trentini all’incirca che vivono ora entro i confini austriaci, quasi 300mila stanno nella linea del fuoco o presso il fronte, il resto all’interno in Comuni stranieri o nei baraccamenti. […] Una piccola parte di questo popolo abita all’interno [deportato nelle “città di legno” dell’Impero] in distretti in cui ebbi a constatare con orrore che bambini e vecchi soccombono con una progressione allarmante; che ragazze prima fiorenti portano ora in massa nel petto il germe della prossima fine [tubercolosi], e che gli altri tutti devono letteralmente combattere cogli indigeni per un pezzo di pane. Non più un popolo, ma le rovine d’un popolo, membra sparse d’un organismo entrato in agonia».
La Grande guerra volgeva al termine.
Il Trentino fu «redento», in realtà: «occupato militarmente», da soldati italiani e inglesi, nel pomeriggio del 3 novembre 1918. A Trento, al ponte sulla Fersina arrivò da Mattarello un drappello di Cavalleggeri di Alessandria comandati dal colonnello Ernesto Tarditi di Centallo (1865-1942). Furono accolti dai rappresentanti della municipalità, così com’era stato convenuto per dare solennità all’ingresso degli Italiani a Trento. In verità, i militari italiani sarebbero stati preceduti da una staffetta di Londra se agli inglesi non fosse stato ordinato di fermarsi ad Aldeno. Sarebbe stato poco decoroso, infatti, far «redimere» una città austriaca di lingua italiana da soldati della corona britannica.
Per predisporre l’accoglienza trionfale dei fanti italiani, nella mattinata del 3 novembre erano arrivati a Trento il capitano Pietro Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e professore universitario, quel giorno nelle vesti di capo dell’ufficio propaganda del XXIX Corpo d’Armata, e il tenente Francesco Ciarlantini (1885-1940) dell’Ufficio informazioni. La città era ancora affollata da militari austriaci.
Scrisse Studi Trentini (1919): «Vien data la voce di trovarsi alle 13 in Municipio. Difatti un buon numero di cittadini si radunò a quell’ora nel cortile del Municipio ed in via Belenzani, e fra un delirio d’applausi, il dr. Faes [era l’assessore comunale] salito su di un tavolo, diede il benvenuto ai due ufficiali con vibranti parole […] Rispose il capitano Calamandrei con alate parole e concludendo: «Ora andiamo incontro ai nostri fanti». Tutta la folla si mise in moto verso Borgo Nuovo, con alla testa i due ufficiali che uomini e donne abbracciavano come simbolo vivo della Patria».
La retorica nazionalista ha tenuto per buono e amplificato per vero ciò che pubblicarono il 4 novembre 1918 i giornali, quelli almeno che poterono uscire perché scarseggiava la carta. I soldati italiani furono accolti con un misto di curiosità e di sospetto. «Ci fu una reazione in generale fredda, animata da sentimenti di curiosità e preoccupazione», scrisse Mirko Saltori (2013).
Nella tarda mattinata del 3 novembre, a Trento fu diffuso un nuovo giornale che aveva per testata «L’attesa». Sostituiva il «Risveglio austriaco», ma restò un numero unico. Il titolo a piena pagina annunciava: «L’armistizio è firmato». Il 3 novembre fu edito il «Bollettino del Governo provvisorio della città» con un appello «a tutti gli ufficiali e soldati Trentini o di nazionalità italiana a mettersi a disposizione del Governo provvisorio per provvedere alla sicurezza della città».
Nel frattempo, era stata proibita la vendita di vino e liquori. Le osterie dovevano rimanere chiuse «fino a nuovo ordine». Il Comitato provvisorio aveva ordinato che fossero tolte dalle vie della città «tutte le tabelle con la dizione tedesca».
Il giornale «L’attesa» annunciava una distribuzione straordinaria di petrolio “nel pericolo che la città rimanga all’oscuro” e pubblicava un «Avviso ai genitori» per sollecitarli a «non lasciar vagare per la città i loro figlioletti, cui sovrastano tanti pericoli, compreso il contagio del mal esempio nei momenti di saccheggio».
La mattina del 2 novembre, il capo della polizia Muck aveva lasciato in tutta fretta la città ed era partito, in treno, per Innsbruck. Erano fuggiti pure gli ufficiali dell’Armata austriaca che alloggiavano all’Hotel Trento (oggi palazzo della Provincia).
Nella notte fra il 2 e il 3 novembre furono saccheggiati i depositi militari, qualche caserma e i magazzini del Sindacato.
Nella corsa all’accaparramento vi furono anche due vittime: una donna restò schiacciata dalla calca «sulla porta della chiesa di S. Trinità, dove la gente accorreva a rubare grucce, apparecchi per gessature, garze e altro stranissimo bottino da un magazzino di materiale sanitario».
I treni diretti verso Bolzano partivano stracarichi di umanità con la divisa grigio-azzurra. Tutte le vie erano ingombre di carri «che tentavano ostinatamente di procedere verso nord».
In quel «rebaltón», come fu chiamato dai Trentini il caotico cambio di nazionalità, tra gli «Avvisi economici», pubblicati dal giornale «L’attesa», figurava la vendita da parte di Armando Enrici da Ceola di «diversi gomitoli gavetta per legare lucaniche».
Alle 19 del 3 novembre, dal Comando Supremo presso l’albergo Trieste, ad Abano Terme, il generale Armando Diaz (1861-1928) aveva annunciato: «Le nostre truppe hanno occupato Trento e sono sbarcate a Trieste. Il tricolore italiano sventola sul Castello del Buon Consiglio e sulla Torre di San Giusto. Punte di cavalleria sono entrate a Udine».
Il comunicato n. 1268 del Comando Supremo, divenuto il “Bollettino della Vittoria”, fu diramato a mezzogiorno del 4 novembre: «La guerra contro l’Austria-Ungheria [durata] 41 mesi, è vinta. […] I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza».
Il testo integrale del «Bollettino della Vittoria», fuso nel bronzo dei cannoni abbandonati sui campi di battaglia, sarebbe stato esposto in tutti i municipi del Belpaese. Scritto dal generale Domenico Siciliani, capo dell’Ufficio stampa del Comando supremo, il «Bollettino» concludeva: «firmato Diaz».
Gli Italiani, molti dei quali semianalfabeti, pensarono che «firmato» fosse il nome di battesimo del generale Diaz. Sull’onda dell’euforia per la vittoriosa conclusione della Grande guerra, tra la fine del 1918 e la primavera del 1919, centinaia di neonati italiani furono registrati all’anagrafe con il nome «Firmato».
In Trentino nessuno fu chiamato «Firmato». Per contro, 31 neonati furono battezzati come «Redento» e 43 bambine «Redenta». A molte delle 43 neonate fu imposto il doppio nome «Italia Redenta», o «Itala Redenta».
Il fascismo era dietro l’angolo.
la storia
di Carlo Martinelli
La titolare assieme al marito, Germano Cosi, lasciarono la Michelin per rilevare la pizzeria-ristorante aperta da un siciliano. Tra i famosi, anche Massimo Ranieri mangiò nello storico locale