L'intervista
martedì 14 Novembre, 2023
di Simone Casciano
I tibetani lo sanno, la pace e la ricerca della perfezione richiedono tempo, anni se non decenni o addirittura secoli. La pazienza è una virtù in tante culture e forse in quella tibetana più che in qualunque altra. Per questo risulta ancora più violento il contrasto tra la secolare costruzione che portò allo splendore di Ganden, uno dei più importanti monasteri del Tibet, e la sua repentina distruzione a seguito dell’occupazione cinese. Quello che era stato costruito poco a poco a partire dal 1409 fu distrutto in pochi anni dal fuoco di artiglieria cinese tra il 1959 e il 1966, i monaci che a migliaia ne animavano stanze e luoghi di meditazione costretti a fuggire attraverso una marcia faticosa e disperata in India e lì ricostruire il loro «Paradiso perduto». Tutto questo viene raccontato nell’ultimo documentario di Ngawang Choepel: «Ganden, a joyful land». Regista tibetano, anch’egli fuggito in India quando aveva due anni, che da anni ha dedicato il suo lavoro al racconto del Tibet e della sua cultura. Il suo primo lavoro, «Tibet in Song», il racconto della sua terra attraverso le sue musiche tradizionali, gli è valso molti riconoscimenti internazionali, ma gli costò anche 7 anni di prigionia quando venne arrestato dal governo cinese durante le riprese del documentario nel 1995. Solo la pressione internazionale riuscì a portare al suo rilascio nel 2007. Quella pressione internazionale che però «oggi manca alla causa tibetana» come ci dice al telefono alla vigilia del suo arrivo in Trentino. Ngawang Choepel sarà infatti questa sera a Lavis, ospite dell’’Associazione Trentino For Tibet che assieme Nuovo Cinema Astra ha organizzato una proiezione del suo nuovo documentario dedicato a Ganden. L’appuntamento è all’auditorium per le 20.30
Choepel come mai ha scelto Ganden e i suoi monaci come protagonisti del suo ultimo documentario?
«Perché era uno dei monasteri più importanti del Tibet. Si può dire che fosse come il Vaticano del buddhismo tibetano. Inoltre il fondatore di Ganden, Lama Tsongkhapa, aveva studiato da grandissimi maestri del buddhismo, esperti di filosofia, meditazione e tantra. Così Ganden divenne un luogo di grande conoscenza e in cui il buddhismo venne riformato e condensato in modo che potesse essere appreso da un unico maestro e in un unico luogo. Era un posto davvero speciale, non lo si può vedere da lontano. Bisogna scalare una montagna e poi ce lo si trova davanti in tutto il suo splendore».
Insomma il suo è il racconto di un paradiso?
«Sì il racconto di un paradiso perduto. C’erano più di 3mila monaci a Ganden nel suo momento di massimo splendore, un luogo speciale e riservato. Ma tutto fu distrutto durante l’invasione cinese a partire dal 1950 e in particolare nel 1959 e poi nel 1966 quando fu praticamente raso al suolo dai bombardamenti. Ora la Cina lo ha ricostruito e dice: “È esattamente come una volta”, ma non è vero. Per me era importante raccontare questa storia e farlo grazie alle testimonianze dei monaci che avevano vissuto a Ganden. Persone che hanno tutte più di 70 o 80 anni. Da quando ho iniziato a girare il documentario ad oggi, purtroppo alcuni di loro non sono più con noi, mi ritengo molto fortunato per essere riusciti ad incontrarli in tempo».
Il suo è anche un film di speranza e rinascita.
«Sì, i monaci scapparono in India e lì ci fu la rinascita. Va premesso però che lasciare il Tibet fu un sacrificio doloroso, sofferto e pericoloso. In quegli anni scappare in India significava intraprendere una marcia lunga e faticosa che richiedeva molti mesi. Bisognava salire e scendere dalle montagne, con la neve e con il rischio di attacchi da parte delle milizie cinesi. Ci tengo a raccontarlo perché anche io e la mia famiglia scappammo così quando avevo due anni. La diaspora tibetana è durata per una generazione intera. Poi il governo indiano ai tempi si dimostrò uno dei più generosi al mondo, non ci permise solo di vivere come rifugiati, ma ci diede terre. Noi siamo proprietari di terre in India. Terre che possiamo vendere, tenere, ma, ancora più importante, che possiamo usare per tenere viva la nostra cultura e il buddhismo tibetano. In certi posti in India puoi davvero pensare di aver sbagliato strada e di trovarti in Tibet. Questo è il lato bello di questo film, è una storia di una perdita dolorosa ma anche una di speranza, compassione e perseveranza».
È molto diverso da come sono trattati i rifugiati oggi.
«Vero, credo che in parte sia dovuto al fatto che il mondo si sente più insicuro. Poi credo che ci preoccupiamo del prossimo meno che in passato. In particolare i politici sono solo preoccupati di farsi rieleggere, invece di fare ciò che è giusto per le persone. Ci mancano leader straordinari».
È preoccupato che la causa tibetana sia stata dimenticata?
«È innegabile che c’è meno attenzione rispetto alla fine degli anni ‘90 e all’inizio del 2000. In parte credo sia il frutto della potenza economica cinese e della sua crescente influenza sul mondo. È doloroso, oltre 150 tibetani si sono dati fuoco in protesta dal 2012, ma non sembra importare. L’auspicio è che le nazioni tornino a interessarsi alla causa tibetana, ma penso che debba partire da noi tibetani. Ognuno di noi deve impegnarsi e contribuire per il Tibet, solo dopo possiamo chiedere agli altri di impegnarsi con noi».
Il Dalai Lama ha più di 80 anni, è preoccupato dalla successione?
«Molto, mi preoccupa come reagirà la Cina. Credo che ci farà vedere da che parte sta il mondo. Il Dalai Lama ha viaggiato per tutto il globo con il suo messaggio di amore e compassione. Mi chiedo da che parte si schiereranno quando la Cina proverà a indicare il prossimo Dalai Lama in contrapposizione a quello indicato dalla comunità tibetana. Lì scopriremo da che parte sta il mondo».
l'intervista
di Davide Orsato
L’analisi del giornalista che ha di recente pubblicato un manuale per spin doctors dal titolo «Non difenderti, attacca» e contiene 50 regole per una comunicazione politica (imprevedibile e quindi efficace)