IL FESTIVAL

domenica 27 Agosto, 2023

A Oriente Occidente l’«Homme rare» di Nadia Beugré: «Con cinque danzatori decostruisco il patriarcato»

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Lo spettacolo il 6 settembre, ore 20:30, al Teatro Zandonai di Rovereto

Quello intersezionale è un femminismo che prende a cuore i problemi e le violenze altrui, sebbene apparentemente non abbiano un effetto diretto su di sé. Era il femminismo di Michela Murgia,  attivista che si è sempre fatta carico di chi non era in grado di lottare a causa della posizione di svantaggio in cui si trovava, appartenendo a una qualche minoranza discriminata per etnia, religione, classe sociale, identità sessuale o genere. Ed è proprio questa intersezionalità che possiamo ritrovare in «L’Homme rare», creazione di Nadia Beugré, danzatrice e coreografa ivoriana. Si tratta di uno spettacolo che andrà in scena il 6 settembre alle 20.30 all’Auditorium Melotti e che è costruito per decostruire la visione patriarcale di maschile e femminile attraverso il linguaggio del corpo, della danza. Attraverso cinque danzatori maschi Beugré invita a riflettere su genere, identità, razza e lo fa capovolgendo stereotipi e promuovendo la nascita di nuovi immaginari.

Nadia Beugré, qual è l’architettura che sta alla base di «L’Homme rare», spettacolo che decostruisce la visione patriarcale della nostra civiltà attraverso una riflessione sugli stereotipi di genere legati all’immaginario maschile (e conseguentemente a quello femminile)?

«Non costruisco i miei lavori intorno all’architettura, ma a partire da immagini, intuizioni, desideri e dalle persone/personalità che li incarnano. In “L’Homme rare” ho voluto lavorare con gli uomini sulle nozioni — sempre molto relative — di virilità o femminilità. Tutti gli uomini hanno una femminilità dentro di sé che va interrogata. Perché quando un uomo balla con il bacino e ondeggia è segno di omosessualità? Si tratta solo di un falso mito che ho messo in discussione. Altro aspetto degno di nota è l’utilizzo che faccio dei tacchi, oggi considerati attributi femminili (cosa che non è sempre avvenuta nel corso della storia) e al tempo stesso uno strumento per sfidare gli uomini, per metterli in pericolo».

Sul palco sono presenti cinque danzatori che si definiscono maschi. Qual è la loro relazione con il loro corpo e in che modo il corpo diventa un dispositivo fondamentale per instillare una riflessione altra e al tempo riflettere sui pattern immutabili che riducono maschile e femminile a etichette permanenti di cui sembra impossibile liberarsi?

«Ho cercato di studiare il corpo guardandone le spalle. Mostrarne la parte posteriore significa inevitabilmente nascondersi alla vista mentre non fare nulla da davanti significa sollevare domande. Chi si trova alle spalle di un corpo vuole rompere i confini per scoprire cosa sta accadendo. Penso che il retro porti con sé un intero mondo immaginario. Naturalmente in questo lavoro alle spalle rientrano anche le natiche e il loro significato. Ho cercato di lavorare sia sulla visione che gli spettatori ne hanno sia sulla vulnerabilità dei ballerini che giocano con questa parte del corpo».

Quale è la funzione dello sguardo nello spettacolo? In che modo vengono percepiti i corpi messi in scena?

«Un giorno una spettatrice che mi aveva vista in un lavoro in cui avevo scelto di danzare solo in mutandine e reggiseno mi chiese perché avessi scelto tale ruolo. È qui che compresi che mancava qualcosa nel modo in cui venivo osservata. Io non stavo interpretando alcun ruolo: ero piuttosto ridotta alla percezione del pubblico che aveva cercato di ricondurmi a uno schema fisso, una gabbia. Accade spesso che sul palcoscenico alcuni spettatori vogliano vedere i corpi di lottatori che si sforzano moltissimo o i corpi sessualizzati pronti a essere consumati dallo sguardo: accade così che io dia loro quello che vogliono, ma solo parzialmente. Perché con lo sguardo arriva anche il senso di colpa».

Un’ultima domanda. Qual è il ruolo del corpo dello schiavo nero — che subiva una valutazione, un’assegnazione di valore anche in termini pecuniari legati alla prestanza — nella costruzione del suo spettacolo?

«I miei uomini rari provengono dal Libano, dalla Francia, dalla Costa d’Avorio e dal Mali.  Con ognuno di loro ho avuto un incontro reale. Ho chiamato lo spettacolo “L’homme rare” in riferimento alla storia della schiavitù, epoca in cui gli schiavi venivano individuati e assegnati a un compito in base alla loro morfologia. Il mio spettacolo vuole essere un omaggio a queste persone nere concepite come materie prime. Mi sono chiesta come l’Occidente guardi il corpo nero e viceversa e ho compresa che la risposta spetta a entrambe le parti, mettendo quindi in discussione il modo in cui osserviamo l’Occidente. Il corpo è ancora un elemento importante nelle transazioni finanziarie. Un corpo che deve essere magro, sano, conforme,  rassicurante, attraente sia nelle relazioni sociali che nel mondo professionale. Un corpo sempre mercificato».