La storia
mercoledì 27 Marzo, 2024
di Sara Alouani
Abdallah Inshasi risponde alla mia videochiamata. Una sigaretta dietro l’altra e un sorriso che spiazza e penso: «Dopo tutte le sfortune della vita, ha ancora la forza di ridere». Dopo il saluto, si scusa «sto scrivendo a mia sorella, ti chiedo un attimo prima di iniziare». Non riescono a sentirsi spesso, la connessione a Gaza è ridotta all’osso. Nato a Khan Yunis oggi Abdallah risiede a Rovereto dal 2018. Ex atleta di parkour è arrivato in Trentino lasciandosi alle spalle tutta la famiglia che oggi vive, assieme al milione e mezzo di palestinesi sfollati, al valico di Rafah. Da qualche settimana ha dato il via ad una raccolta fondi per aiutarli.
Abdallah, partiamo dalla sua infanzia. Cosa significa vivere a Gaza?
«Io sono cresciuto con soldati ad ogni angolo della strada. Vivere a Gaza significa avere un costante coprifuoco al tramonto, significa che i militari israeliani quando vogliono entrano nei negozi e nelle case e prendono quello che desiderano senza chiedere. Quando vuoi uscire per andare a scuola, o a fare la spesa o a giocare, devi passare decine di checkpoint. A volte sono aperti, altre chiusi, quindi il movimento è limitato a piacimento delle forze di occupazione. Io sono cresciuto pensando che questa fosse la normalità, non mi sarei mai immaginato che fuori il mondo fosse diverso».
Lei è stato un atleta di parkour, come ha iniziato questa pratica?
«Da piccolo con i miei amici eravamo abituati a fuggire dai soldati, e per farlo, dovevamo saltare muri, aggrapparci a transenne, saltare da un tetto all’altro. Dovevamo essere rapidi e farci largo tra le macerie degli edifici distrutti dalle bombe. Ho imparato così l’arte delle acrobazie. Ma per noi palestinesi il parkour ha anche un significato metaforico».
Quale?
«In un paese martoriato dalla guerra e dal costante “casino”, l’ostacolo diventa un salto verso la libertà. Superare muri è un po’ come superare le difficoltà, per noi, ogni muro saltato era una speranza in più di poter un giorno vivere liberi e senza paura».
Lei ha anche fondato una squadra di Parkour a Gaza…
«Nel 2005 fondai la squadra Gaza Parkour and Free Running e iniziai ad allenare bambini e bambine palestinesi in una palestra a cielo aperto. Andavamo al mare, mettevamo due materassi da letto per terra, qualche pneumatico, e usavamo i muri distrutti dalle bombe come pareti per allenarci. Con questa squadra abbiamo iniziato a girare dei video su YouTube anche per portare fuori da Gaza la nostra situazione e la causa palestinese».
Poi è venuto in Italia, come ha fatto a lasciare Gaza?
«Grazie a uno scambio culturale nel 2012 sono stato invitato a parlare del parkour e del conflitto palestinese in Italia. Sono rimasto un paio di settimane ed ho visitato alcune scuole di parkour in Sicilia, Lombardia, Puglia e Anzio. Poi, nel 2013, il progetto è stato rinnovato, quindi, sono tornato in Italia ma questa volta dopo le due settimane di convegni ci sono rimasto, illegalmente. Dopo alcuni mesi senza documenti, senza casa, senza lavoro nel 2014 ho ottenuto l’asilo politico e mi sono stabilito a Firenze».
Ora lei però è residente a Rovereto da anni, come è finito in Trentino?
«Uno strano scherzo del destino. Dopo aver girato il documentario ‘One more Jump’, nel 2018 il regista Emanuele Gerosa mi ha invitato a Trento e a Rovereto per esibirmi in alcuni spettacoli di parkour. Durante uno di questi spettacoli caddi e mi ruppi la schiena. Da quel momento sono legato ad una sedia a rotelle e dopo mesi di cure e riabilitazione decisi di rimanere qui».
Come ha reagito all’incidente, una volta scoperto che non avrebbe più potuto camminare?
«Il parkour è stato tutta la mia vita e da un giorno all’altro ho capito che non potevo più fare quello che facevo prima. È stato un colpo duro ma ho cercato di prendere in mano la mia vita e mi sono subito rimesso a fare sport paralimpici. Oggi faccio tiro con l’arco ed ho appena preso la patente (ride orgoglioso ndr)».
Lei ha da poco avviato una raccolta fondi per i suoi familiari che sono rimasti a Gaza. Vuole fare un appello?
«Parliamo di 16 membri della mia famiglia, tra cui 8 nipoti piccoli, che al momento si trovano bloccati a Rafah, e vivono in tende sotto costanti bombardamenti, senza sapere se vedranno la luce del domani. Sto cercando di aiutarli come posso, da lontano, inviando soldi ma non bastano mai. I prezzi sono alle stelle, un chilo di farina costa oltre 30 dollari e gli aiuti umanitari sono bloccati al confine con l’Egitto. Mio padre ha bisogno di essere operato per un’infezione alle vie urinarie e non riesce più a camminare. Vorrei poterlo portare qui, assieme a mia madre che non vedo da ormai 11 anni. Inchalah (se Allah vorrà ndr)».