IL CASO
lunedì 11 Dicembre, 2023
di Margherita Montanari
Settore terziario, grande distribuzione organizzata. Il turno di lavoro iniziava alle 7:30. Per tanti anni, quell’impiego che prevedeva turnazioni, domeniche e festivi, era stata una costante. Poi, con la figlia piccola da portare all’asilo, senza supporti a cui chiedere un aiuto, quell’orario è diventato un ostacolo insormontabile. «Mi sono rivolta all’azienda per chiedere un quarto d’ora di flessibilità. Iniziare il turno alle 7:45 anziché alle 7:30 mi avrebbe permesso di portare alla materna – in anticipo – mia figlia. Ho ricevuto un rifiuto secco», racconta una lavoratrice che ha visto alzare un muro davanti a una richiesta minima presentata al datore di lavoro. Quasi scontato l’esito di quel no: la lavoratrice aveva rassegnato le proprie dimissioni a causa dell’incompatibilità tra lavoro di cura e impegni professionali. «Ero rassegnata, è rimasta l’unica soluzione praticabile. Quel momento l’ho vissuto come una sconfitta».
È una storia che più di altre, secondo Paola Bassetti, segretaria di Filcams Cgil del Trentino (in foto), che seguì la dipendente del supermercato, «dà la misura di un fallimento della società tutta: delle aziende, ma anche degli strumenti della Provincia per evitare queste fuoriuscite continue di lavoratrici in maternità dal mondo del lavoro». Parla al plurale di fuoriuscite perché le storie si ripetono «in serie». Quasi tutte uguali: lavoratrici, anche di vecchia data, a un certo punto non riescono a conciliare vita e professione, provano a chiedere un contratto più flessibile ma si vedono rispondere picche da parte del datore di lavoro.
«Dimissioni per orari di lavoro incompatibili con gli orari di entrata e uscita dalle scuole, part-time rifiutati o resi impossibili da sostenere», spiega Bassetti. La negazione della flessibilità da parte dell’azienda segue secondo la sindacalista uno schema culturale ben definito. «È un approccio patriarcale escludente. Un approccio alla conciliazione tra famiglia e lavoro basato sul sacrificio della donna. Vorrei vedere se a chiedere il quarto d’ora di flessibilità fosse un padre». Anche il fatto che il lavoro di cura dei figli ricada prevalentemente sulla madre, anziché essere una condivisione genitoriale, «è un retaggio di una società superata».
Il terziario è uno dei settori della grande fuga delle lavoratrici madri. Molti abbandoni avvengono nel silenzio e nella rassegnazione, spiega Bassetti. «Sono tantissimi i casi di lavoratrici che si sono viste negare un part-time che avrebbe potuto aiutarle nella conciliazione di vita lavoro. Ricordo una a cui venne concesso, ma assegnandole solo turni notturni e domenicali: una stretta che l’aveva portata a rinunciare. Notiamo che purtroppo una lavoratrice, dopo che ha avuto un figlio, è considerata meno efficiente, una persona su cui fare meno affidamento. Una situazione che viene vissuta con sofferenza e senso di colpa dalle donne».