L'intervista
giovedì 23 Febbraio, 2023
di Simone Casalini
«Spero ancora che qualcuno possa raccogliere l’eredità di Agitu. So che non è semplice, però desidererei che la sua passione per la vostra comunità, le sue idee di sostenibilità e diversità proseguissero ancora. Mi rivolgo ai municipi e alle persone che hanno le competenze per farlo, portate avanti il suo impegno». Il trauma dell’assenza e della violenza non diminuiscono con il passare dei mesi nelle parole di Kuma Ideo Gudeta, fratello di Agitu, l’imprenditrice uccisa poco più di due anni fa (il 29 dicembre 2020) da un suo collaboratore, Suleiman Adams. A dicembre la sentenza d’appello ha confermato la pena di 20 anni, quasi una seconda ferita per Kuma – che vive in Canada e lavora a Newark (nel New Jersey) – a cui il giudizio appare profondamente ingiusto: «Sono molto deluso, mi sarei atteso l’ergastolo. Non dovrebbe più poter tornare libero». Emerge la sensibilità di una persona a cui è stata sottratta una parte di mondo («Mi manca tutto di lei: la risata, le battute, la sicurezza»). Kuma parla e scrive di Agitu spesso al tempo presente. Il tempo della vita.
Poco più di due anni fa, Kuma, è stata uccisa sua sorella. Come è cambiata la sua vita?
«Non sono più la stessa persona. L’uccisione di mia sorella mi ha lasciato ferite, a livello mentale e psicologico. Sono ancora immerso nel trauma, non riesco a cancellare l’immagine e il pensiero della sua brutale uccisione. È un dolore con cui sto imparando a convivere, ma il pensiero del suo assassinio è una grande frattura nella mia vita».
Che cosa le manca di più di Agitu che aveva una personalità prismatica?
«Mi manca tutto di lei. Mi mancano la sua risata, le sue battute, la sua sicurezza, amo la sua passione per ciò che è possibile, amo il suo coraggio. Ma soprattutto amo la sua gentilezza e generosità. Le persone che hanno avuto la possibilità di conoscere Agitu lo confermeranno. Mi è mancata la sua sicurezza ed è doloroso che un’anima così gentile abbia dovuto lasciare questo mondo con crudeltà».
Ha un sogno ricorrente legato a lei?
«Ho l’immagine della sua casa e di lei stampate nella mente e mi generano ansia. Ad un certo punto devo rimuoverle. Con il tempo sto imparando a convivere con l’orrore della sua tragica uccisione. Anche solo l’idea di parlare o scrivere di lei è così forte e debilitante. Dopo, certamente, ci sono giorni migliori di altri».
Recentemente il comitato che si è occupato della raccolta fondi e delle attività per ricordare Agitu ha lanciato un grido d’allarme: l’eredità è in pericolo perché nessuno vuole subentrare nella gestione de «La capra felice». Vuole rivolgere lei un appello?
«È un peccato, anche se so che è quasi impossibile trovare qualcuno che possa sostituire Agitu, speravo tuttavia che qualcuno all’interno della sua amata comunità potesse farsi carico di proseguire. Agitu amava davvero la realtà in cui viveva ed era molto orgogliosa del Trentino. Sentiva di appartenervi e riversava la sua passione nel lavoro, che era il modo in cui Agitu esprimeva questo amore. Spero che la comunità, compresi i Comuni e le persone che hanno le risorse e le competenze necessarie, trovi una via per portare avanti le sue idee di sostenibilità e diversità. Spero che nella vostra città, nella città di mia sorella, riecheggi ancora la risata di Agitu e sia conservata la gentilezza e la comprensione che mostrava».
Avete parlato in famiglia di possibili soluzioni alternative?
«Come famiglia desideriamo che l’eredità di Agitu viva nella sua comunità per le generazioni a venire. Il sogno di Agitu era di completare il suo progetto di agriturismo e di mostrare a noi la sua comunità e le sue amate capre. Il suo sogno è stato interrotto da un uomo malvagio. Tuttavia, il mio desiderio ora è che continui a vivere. Poiché tutti i membri del comitato provengono dalla comunità, spero che trovino la volontà e la forza di realizzarlo».
Sua sorella ha dato vita ad un progetto imprenditoriale, culturale e sociale incentrato intorno alle capre e al recupero di alcune razze autoctone. Cosa rappresentavano per lei?
«Le capre simboleggiano la libertà e l’indipendenza. Mia sorella ha coltivato, attraverso di loro, il suo passato ancestrale e la connessione con la civiltà occidentale. Sono due aspetti che si sono incrociati ad un certo punto e lei voleva essere un ponte, un elemento di unione. Le capre rappresentano anche la comunità, la sostenibilità dei modelli di produzione e ambientale».
Nel paese di Frassilongo qualcuno teme che l’esempio e l’utopia di Agitu si perdano.
«Continuo a sperare che la vostra comunità trovi il modo di creare un ponte verso la continuità dei suoi sogni, perché il sogno di Agitu è in fin dei conti il vostro sogno. Mia sorella mi ha sempre parlato di quanto siete speciali. Sono sicuro che un giorno potrò portare i miei figli in Trentino e mostrare loro quello che mia sorella stava facendo».
Il 5 dicembre la Corte di Appello ha confermato la condanna a 20 anni per il collaboratore che uccise sua sorella. Che cosa ha pensato?
«Personalmente ho creduto che fosse ingiusto. Avrei voluto l’ergastolo, quella persona non dovrebbe più tornare libera».
Suleiman Adams ha mai cercato un contatto con voi?
«No».
Che cosa prova, Kuma?
«Rabbia. Tanta rabbia che non passa. Non ho nessun interesse a parlare con lui, non voglio nemmeno pensare che esista».
Sappiamo tanto della vita trentina di Agitu e poco di quella in Etiopia. Ci racconta un aneddoto familiare?
«Siamo cresciuti ad Addis Abeba, la capitale. Abbiamo avuto un’educazione normale in una famiglia numerosa (sei figli, quattro femmine e due maschi) con genitori molto affettuosi. Agitu è la secondogenita. Mia madre racconta che Agi è stata speciale dall’inizio: forte, divertente, appassionata, carismatica e empatica. Nella sua scuola era popolarissima e riusciva sempre a portare a termine tutto ciò che le passava per la testa».
Ai suoi figli cosa racconta di zia Agi?
«Che è una persona fedele a sé stessa, immersa in un sogno e con una responsabilità: salvare il pianeta, promuovere la sostenibilità. Tornerò in Trentino insieme a loro».
Un’ultima domanda: sua sorella è arrivata a Trento prima per studio e poi come rifugiata politica per le sue battaglie contro il «land grabbing». È stata fortunata, in quella circostanza, perché poté arrivare in aereo e non via mare. Cosa sentiva verso i nuovi profughi?
«Mia sorella ha a cuore la giustizia sociale, desidera una società equa in cui le donne siano trattate in modo paritario, i diritti umani e lo stato di diritto siano rispettati. La maggior parte dei rifugiati approda sulle coste dell’Europa per sfuggire alle uccisioni dei dittatori. Molti rifugiati si mettono in salvo rischiando tutto, compresa la vita, per sperare in un domani migliore. Ci sono anche molti migranti economici, che hanno perso la speranza, perché il loro Paese è così corrotto da non vedere vie d’uscita. Hanno deciso piuttosto di morire in mare o di raggiungere l’Europa e trovare un futuro più luminoso. Mia sorella sente il loro dolore. Ha parlato della loro umanità e della necessità di trattarli con dignità e rispetto e ha creduto nella sua comunità perché è stata abbracciata e si è sentita italiana come un altro italiano».