L'intervista
sabato 4 Novembre, 2023
di Elisa Salvi
Il primo novembre, mentre molti riposavano per la festività di Ognissanti, Gino Comelli effettuava il suo ultimo turno da verricellista all’Aiut Alpin Dolomites. Autentica colonna del Soccorso Alpino, Comelli dopo quasi 43 anni di servizio, più di 2500 interventi e 4000 ore di volo, è ufficialmente in “pensione”. Friulano d’origine, precisamente di Romans d’Isonzo, ma fassano d’adozione, Gino Comelli, classe 1954, vanta un curriculum eccezionale: guida alpina, maestro di sci, iscritto dal 1980 al soccorso alpino nazionale nella sezione Alta Val di Fassa di cui è stato a lungo capo stazione, istruttore del Soccorso Alpino, fondatore nel 1990 con i fratelli gardenesi Kostner dell’«Aiut Alpin Dolomites – heli mountain rescue», verricellista dal 2000, è stato insignito dell’onorificenza di ufficiale «Al Merito della Repubblica» e nel 2010 la «sua» stazione ha ricevuto la «Targa d’argento», quale premio internazionale di Solidarietà Alpina.
Un uomo che ha fatto della montagna, assieme alla famiglia, una ragione di vita. Uno sportivo che i settant’anni (che compirà il prossimo maggio) non li dimostra affatto e che ha un infinito bagaglio di esperienze e di storie da raccontare.
Gino, ricorda i primi tempi al Soccorso Alpino?
«Era il 1980 e avevo terminato da poco i corsi da guida alpina, quando Renzo Favè, il capostazione dell’allora sezione Alta Val di Fassa, mi “arruolò” quasi automaticamente. Mi trovai subito molto coinvolto. I primi anni da guida non avevo tanto lavoro e compensavo con il soccorso per cui facevo tanti interventi. In poco tempo diventai bravo, tanto da fare il corso per istruttore, prima trentino e poi nazionale. In seguito, mi sono specializzato come vericellista, acquisendo altre competenze».
Qual è l’aspetto che è più cambiato nel Soccorso rispetto a quando ha iniziato?
«I numeri: negli anni Ottanta, in alta Val di Fassa facevamo tra i 50 e i 70 interventi all’anno. Oggi siamo tra i 170 e i 190 l’anno».
Chi oggi si avvicina alla montagna è più impreparato di un tempo?
«Sì, è cambiata la cultura. Trenta, quarant’anni fa, c’erano meno persone che salivano in quota e, nella maggior parte dei casi, sapevano cosa andavano a fare. Il soccorso lo chiamavano nei casi gravi. Oggi c’è più gente che va in montagna e lo fa, spesso, senza la giusta preparazione, magari con un equipaggiamento inadeguato, senza mappa, senza aver consultato il meteo e senza aver valutato le proprie capacità e l’itinerario scelto».
Gli incidenti capitano anche lungo i sentieri semplici.
«Uno degli interventi più complessi, mi è capitato un anno fa lungo su un sentiero semplice nella zona di Merano: una turista viennese era caduta e si era impigliata a testa in giù in mezzo agli alberi. Ci abbiamo messo un bel po’ a recuperarla».
Tra gli interventi più frequenti degli ultimi anni ci sono quelli dei piloti di parapendio?
«In questi casi la difficoltà è dettata dai fili, che si ingarbugliano tra gli alberi, ma che non possiamo tagliare: il parapendio potrebbe entrare nel rotore dell’elicottero, che provoca un costante spostamento d’aria, facendo cadere la persona che ha bisogno d’aiuto e pure l’elicottero. In questi casi, la bravura sta nell’avvicinarsi e spostarsi finché, con molta attenzione, non si riesce a recuperare il pilota del parapendio».
Ci vuole molta maestria negli interventi con l’elicottero?
«Soprattutto perché le situazioni si possono complicare in un attimo, proprio per lo spostamento d’aria che genera l’elicottero. Se siamo su un campo da calcio questo spostamento è regolare, ma su un pendio il flusso d’aria può prendere direzioni tali da provocare la caduta degli infortunati, di chi sta loro vicino o far volare la loro attrezzatura, come giacche a vento o zaini. E quando gli oggetti volano diventano molto pericolosi. Inoltre, c’è da tenere sempre presente la direzione del vento, l’elicottero deve andare contro vento, così chi è a bordo non è sballottato e lavora meglio».
Lei è un punto di riferimento nel Soccorso fassano, le spiace lasciare?
«No, mi godrò un po’ di tranquillità, dopo che ho portato a termine l’ultimo turno. Abbiamo dei margini di sicurezza, sappiamo come muoverci, ma quando ti chiamano per un soccorso, sai quando esci di casa, ma non sei mai sicuro di tornarci».
Lei eri a capo della sezione Alta Fassa il 26 dicembre 2009, quando c’è stata la tragedia della Val Lasties con la scomparsa di quattro soccorritori: come si supera un evento del genere?
«Con l’impegno a migliorare il servizio e la sicurezza degli operatori. È stata una tragedia molto dura da superare, ma abbiamo reagito con la richiesta di poter volare di notte. Allora, c’era la legge a livello europeo, ma l’Italia non si era ancora adeguata. Con Raffael Kostner ci siamo battuti molto e l’Aiut Alpin, a livello nazionale, è stata la prima società (non militare) a ottenere le certificazioni per il volo notturno».
In quarant’anni di attività e oltre 2500 interventi ci saranno persone che la hanno ringraziato in modo particolare?
«Certo che ci sono e non smettono di essere riconoscenti, anche dopo molti anni. Tra queste, c’è una mamma di Bologna che mi manda gli auguri di Natale da venticinque anni: abbiamo estratto vivo il figlio, che allora aveva dieci anni, da una valanga caduta in Val di Fassa. Oggi quel ragazzo è cresciuto ed è diventato padre. Queste sono le storie belle da ricordare».
Le ha concluso l’attività con l’Aiut Alpin Dolomites, ma continua a fare la guida?
«Sì, anche perché il gruppo di guide con cui collaboro, ormai, mi lascia scegliere le richieste dei clienti che più mi piacciono. Mi aspettano, forse, gli anni migliori».
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