L'intervista
lunedì 19 Agosto, 2024
di Lorenzo Perin
Il Mountain Future Festival, che si dipana anche quest’anno fra i mesi di luglio e ottobre in diverse località dell’altopiano della Paganella, è un’occasione per parlare di futuro della montagna. Sono tanti i temi affrontati, dalle sfide del turismo di massa al cambiamento climatico, fino all’evoluzione urbanistica di questi paesaggi, un tempo simbolo di natura incontaminata. Di questo e altro abbiamo parlato con Alex Bellini, celebre esploratore che fra le sue imprese annovera due traversate dell’oceano in barca a remi, e che sabato 24 agosto, alle 17, interverrà al Plan dei Sarnacli ad Andalo per parlare dei suoi ultimi progetti. L’evento «Nell’occhio del ciclone» sarà moderato da Paola Pancher.
Chi è Alex Bellini, ma soprattutto chi è stato Alex Bellini?
«Innanzitutto io sono e sono sempre stato un montanaro, nato e cresciuto in un piccolo paese della Valtellina in provincia di Sondrio. A un certo punto della mia crescita, mi sono trovato davanti a un bivio esistenziale, che penso costituisca la sana fase di crisi che ognuno di noi deve affrontare alla soglia dei vent’anni: ma io cosa devo diventare? Inizio a lavorare, devo studiare… Oppure un percorso classico non fa per me? La scelta è avvenuta vivendo: la mia prima grande avventura è stata la maratona des sables, una traversata del Sahara marocchino di oltre 200 chilometri. Lì, per la prima volta, ho sentito che esisteva una connessione fra i nodi interiori, che sentivo di dover sciogliere, con il mondo attorno a me e l’universo sopra di me».
Quindi parte da un’esigenza spirituale questa vita da esploratore?
«Assolutamente sì. Ed è questo stesso bisogno spirituale che ha pian piano trasformato la passione in un lavoro. Voglio mettere l’accento su questo “piano piano” perché spesso quando vedo dei colleghi più giovani che si approcciano all’esplorazione, vedo che sono già animati da una prospettiva di guadagno. Non è una cosa che voglio condannare, e anzi penso che trasformare ciò che piace in un’attività lavorativa sia una delle aspirazioni più giuste e nobili, ma penso che il mestiere che ci siamo scelti richieda lentezza. La lentezza è il segreto per godersi i momenti di comunione con la natura, di ripiegamento riflessivo su sé stessi e sul senso da trovare o attribuire alle cose e vivere veramente lo spirito dell’esplorazione. Solo così si può trasmettere l’autenticità del proprio vissuto».
Fra le avventure più estreme ci sono state le traversate dell’Atlantico e del Pacifico.
«In totale, fra le due traversate, sono stati 30.000 chilometri e 518 giorni. Sono stati fra i giorni più belli, più brutti e più sfidanti della mia vita. Non pensate che anche nella testa di un esploratore non scorra mai il pensiero “Ma chi me lo ha fatto fare”. Succede quando sei al quinto giorno di digiuno in mezzo all’acqua perché avevi calcolato male i tempi di traversata, o quando vedi tua moglie, con la quale sei sposato da pochi mesi, allontanarsi sulla costa di Lima mentre vieni inghiottito dal Pacifico. Tuttavia, rifarei tutto mille volte. Sono stati giorni tutt’altro che monotoni, ogni giorno con nuove sfide da affrontare. Lo stesso finale della traversata del Pacifico, interrotto negli ultimi 100 chilometri per il meteo, all’inizio mi ha lasciato con l’amaro in bocca, ma poi ho pensato a una cosa: che noi esseri umani abbiamo dei limiti rispetto alla natura, che ci espone alle sue contingenze e ai suoi arbitri nei confronti dei quali ci dobbiamo adattare, imparando a mettere da parte i nostri piccoli, talvolta egoistici, obiettivi. Se la traversata del Pacifico non è stata completa dal punto di vista chilometrico, lo è stata da quello esistenziale».
A proposito di limiti, di recente lei si è interessato alla causa ambientale: quali sono gli ultimi progetti di cui parlerà al Mountain Future Festiva?
«Negli ultimi anni, anche a seguito di una maturazione personale, mi sono reso conto che va un po’ cambiata la prospettiva classica, un po’ favolesca, dell’esploratore. L’esploratore non dev’essere solo uno scopritore, un colonizzatore di nuove realtà, ma può avere una responsabilità. Nei miei ultimi e prossimi viaggi vorrei considerare la natura non come qualcosa di estraneo da scoprire, ma come una realtà che influenziamo e che ci influenza, di cui ricucire i nodi di una relazione che da qualche decennio si è compromessa. Nel 2019 abbiamo lanciato un progetto, “10 rivers, 1 ocean”, in cui ho documentato la mia navigazione nei fiumi più inquinati del mondo e presso la Great Pacific garbage patch, l’isola di plastica accumulata a largo delle coste della California».
E invece cosa bolle in cantiere per il futuro?
«Più che di futuro, penso sia corretto parlare già di presente. Sono di recente rientrato da un mio viaggio in Alaska, 37 giorni in bicicletta fra le colline innevate e ghiacciate dello Stato. Parlare di strade sarebbe improprio, al massimo possiamo dire di aver pedalato sulla pista battuta dai cani da slitta. Qui abbiamo voluto documentare gli effetti del riscaldamento globale sulle popolazioni inuit locali: se è vero che da un lato inverni meno rigidi sono più sostenibili per il riscaldamento, dall’altro la selvaggina cambia e si sposta, le precipitazioni si fanno più frequenti. C’è tutto un ecosistema che viene turbato, e nelle periferie di Anchorage (la città più popolosa dell’Alaska, ndr) il senso di anemia di alcune popolazioni è evidente. Nei prossimi mesi nel mirino c’è la Groenlandia: vorrei realizzare un documentario in cui illustrare come gli indigeni (che sono l’80 per cento della popolazione) non debbano essere pensati solo come le vittime del cambiamento climatico, ma anche come degli stakeholder, dei future shaper della realtà ecosistemica globale. Nel sud-ovest del Paese stanno aprendo una piccola industria dell’acciaio: industria che sappiamo essere molto inquinante, ma anche molto redditizia. È importante narrare le realtà indigene (io mi sto interessando a quelle del Nord) non solo in un’ottica vittimistica, ma considerarle persone dotate di agency che danno attivamente forma al nostro collettivo futuro».