l'intervista

domenica 23 Marzo, 2025

Alice Robb: «L’ossessione della danza, tra sacrificio e cieca obbedienza. Molestie? Nel balletto c’è la cultura del silenzio»

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La scrittrice americana, ed ex ballerina, presenterà il suo memoir «Non pensare cara» a Rovereto. «A 13 anni venni espulsa dalla School of American Ballet di New York a causa del mio fisico»

La danza classica come passione, ossessione, devozione, cieca obbedienza, competizione e, infine, liberazione. È un rapporto complicato, diviso tra amore e distruzione quello descritto in «Non pensare cara. Amare e abbandonare la danza classica» (66thand2nd, 2025), l’ultimo romanzo di Alice Robb. Ex ballerina, classe 1992, ha studiato danza nella prestigiosissima School of American Ballet di New York per poi essere espulsa (a soli 13 anni) a causa della sua forma fisica, segnata da una pubertà che l’ha resa troppo prosperosa per permetterle di diventare una étoile. «Le mie coetanee erano quasi professioniste, così ho accettato che il sogno era finito» spiegherà. La scrittrice americana, che collabora regolarmente con «Vanity Fair», The Washington Post», «The New Republic» e «The Atlantic» presenterà il suo memoir, diventato un bestseller internazionale, tradotto in 17 lingue, martedì 25 marzo alle 19 alla libreria Arcadia di Rovereto.
Robb, a 9 anni è stata ammessa alla prestigiosa School of American Ballet. Un sogno diventato realtà?
«Da bambina, cresciuta a New York, ero ossessionata dall’idea di entrare alla Sab. Sapevo che era la scuola di danza classica più prestigiosa della città e quella che mi avrebbe dato le migliori possibilità di diventare una ballerina professionista. Ho dovuto fare tre audizioni prima di essere ammessa ed è stato un sogno che si è avverato, soprattutto quando sono stata scritturata per lo “Schiaccianoci” il primo anno e ho potuto salire sul palco con veri ballerini del New York City Ballet».
A 13 anni è stata espulsa, perché? Come reagì?
«Con il passare degli anni, non stavo progredendo come le mie compagne di classe. Il mio corpo non si stava sviluppando nel modo giusto e fu molto doloroso vedere le altre avanzare. L’espulsione dalla Sab fu solo l’inizio della fine del mio sogno. Non ero ancora pronta ad accettare che il mio sogno di diventare una ballerina non si sarebbe realizzato. Così, per un paio d’anni, ho continuato a studiare in diverse accademie della città e a frequentare programmi di formazione intensiva ogni estate. Solo a 15 anni (l’età in cui le mie coetanee erano quasi professioniste) ho finalmente accettato che il sogno era finito».
«Non pensare, cara», il titolo del suo ultimo romanzo riprende la frase che George Balanchine, fondatore del New York City Ballet, era solito dire alle sue allieve e che veniva ripetuta dalle insegnanti come un mantra. Sembra davvero una formula di cieca sottomissione…
«C’era un aspetto positivo e uno negativo in questa istruzione, che mi è stata ripetuta dai miei insegnanti, discepoli di Balanchine. Da un lato, poteva essere interpretato come un ordine di obbedienza cieca: ai ballerini viene spesso insegnato come sostituire la propria individualità al servizio della visione del coreografo. Quando danzano nel corpo di ballo, dove tutti i ballerini iniziano, devono cercare di fondersi l’uno con l’altro e creare un’uniformità sul palco. Ma la seconda parte del mantra è più profonda e responsabilizzante: “Fai e basta”. Invita il danzatore a sperimentare il movimento e ad abbandonarsi alla gioia della danza, anziché analizzarla troppo».
A che livello è la competizione nel balletto? Nel dramma, «Il cigno nero» viene descritta come una componente distruttiva, o meglio, autodistruttiva…
«La danza classica è molto competitiva per le ragazze giovani, perché è molto popolare. È quasi un rito di passaggio nella nostra cultura: le bambine vanno a lezione di danza classica, amano il tutù e sognano di diventare ballerine. Naturalmente, per molte bambine si tratta solo di una fase o di un passatempo che poi si esaurisce. Ma per molte altre, qualcosa prende piede e diventa un’ossessione. È molto facile che le ragazze finiscano per competere tra loro. Indossavamo tutte la stessa uniforme (body dello stesso colore) e passavamo ore a guardarci allo specchio. Eravamo in competizione per attirare l’attenzione degli insegnanti e ottenere ruoli nei balletti. Per i ragazzi e gli uomini la competizione è minore, perché sono meno quelli che aspirano a diventare ballerini. Quindi, a loro vengono date più possibilità e tendono a ricevere più attenzione. Non è necessario che inizino a ballare all’età di 4 o 5 anni; è più comune che i ragazzi vi si avvicinino più tardi. In genere, sono considerati più validi».
C’è uno standard di magrezza elevatissimo che porta, purtroppo, ballerine a soffrire di disturbi alimentari. Ma ci sono anche gli abusi sessuali: il movimento #meetoo ha messo in luce casi di molestie nel mondo del balletto. Penso a Peter Martins, che ha lasciato il New York City Ballet proprio perché accusato di molestie nei confronti delle ballerine. È un fenomeno diffuso? Se ne parla?
«Nel balletto c’è una cultura del silenzio: non ci era permesso parlare in studio. E c’è così tanta competizione che non si vuole rischiare di criticare una persona potente e Peter Martins, in particolare, deteneva moltissimo potere. Quindi, per molto tempo, questi temi non sono stati affrontati pubblicamente. Il New York City Ballet era stato creato da Balanchine come una sorta di dittatura e anche quando si è cominciato a parlare con i giornalisti, durante il movimento MeToo nel 2017/2018, a parlare sono stati molti ex ballerini, persone che avevano già lasciato il mondo del balletto e non avevano più nulla da perdere. Fino a poco tempo fa, quasi tutti coloro che occupavano una posizione di potere significativo nel mondo del balletto (direttori artistici, maestri di ballo e coreografi) erano uomini. Ora si comincia a parlare di più di molestie e, affinché le cose cambino, abbiamo bisogno di donne leader nel balletto. Negli ultimi anni c’è stata una grande spinta a promuovere le coreografe donne e a far programmare il loro lavoro. E alcune importanti compagnie americane sono ora guidate da donne».
Parlando di donne, che ruolo hanno le madri delle ballerine?
«Un ruolo complicato. C’è lo stereotipo delle “mamme ballerine” che vivono attraverso le loro figlie, ed è vero che quando frequentavo la Sab, molte delle mie compagne di classe avevano madri che erano state loro stesse ballerine (mia madre non sapeva molto di danza classica finché non sono diventata ossessionata). La danza classica è un’attività che richiede molto tempo, tanto che i genitori (e di solito sono le madri) finiscono per passare molto tempo allo studio, aspettando che le lezioni finiscano e accompagnando le figlie dalle lezioni alle prove fino agli spettacoli. Diventa un affare di famiglia, con tutti che fanno sacrifici per l’aspirante ballerina. Tutto questo può mettere ancora più sotto pressione l’atleta. Molte delle ex ballerine che ho intervistato hanno parlato di sentirsi in colpa per aver deluso le loro madri quando hanno lasciato la danza classica».
Ci sono elementi positivi che la danza classica le ha insegnato e che custodisce gelosamente nella sua vita quotidiana?
«Sì, assolutamente! Per ogni aspetto negativo, ce n’è uno positivo. Un’eredità di cui sono grata è che amo fare esercizio e muovere il mio corpo. In questo momento non si tratta di lezioni di danza, anche se mi piace sapere che ci sono. Ho dei periodi in cui muoio dalla voglia di stare in studio. E sarò sempre interessata al mondo del balletto, come spettatrice: vado al Sadler’s Wells (dove vivo a Londra) un paio di volte all’anno e, quando sono a casa a New York, controllo cosa c’è al New York City Ballet. Ho stretto grandi amicizie con donne che amano andare al balletto».