La storia
domenica 19 Febbraio, 2023
di Alberto Folgheraiter
Novantasei giorni di ospedale, sei settimane di terapia intensiva, 24 chili di peso persi e finiti chissà dove. Sono passati due anni. Di questi giorni Amedeo Detassis (1957) era tenuto in coma farmacologico, con la tracheotomia ed il respiratore che pompava aria come se dovesse preparare una di quelle immersioni che, con la barca a vela, sono la sua passione da sempre.
Amedeo Detassis è molto noto a Trento. Assieme a Sandra, sua moglie, portano avanti da più di quarant’anni, in via Mazzini, l’unica pellicceria artigianale della provincia di Trento. La maggior parte delle sue clienti arriva da fuori regione perché i professionisti di questo settore, negli anni, si sono ridotti a poche unità.
Adesso che se la sente di raccontare il suo viaggio nell’inferno del Covid non riesce a trattenere le lacrime. La sua testimonianza è un inno alla vita e un monito ai “terrapiattisti” delle vaccinazioni.
Come è cominciata?
«Tutto è cominciato il 18 gennaio 2021, quando prendevano il via le vaccinazioni per i medici, il personale sanitario e gli anziani in casa di riposo. Tutto è cominciato perché una ragazza che lavora da me si è resa conto di essere positiva al Covid. Il lavoro si è fermato. Tutti gli altri collaboratori, me compreso, siamo andati a fare il tampone che è risultato negativo. Abbiamo riaperto e ripreso a lavorare fino al sabato seguente. Il sabato sera sono crollato. Non respiravo più».
Il tempo di arrivare in ospedale e subito in rianimazione.
«Quando sono arrivato, con gravi difficoltà respiratorie, la terapia intensiva era già satura. Di cinquanta posti letto non ce n’era uno libero».
Che cosa ricorda di quei giorni?
«Per fortuna ricordo poco. Dei giorni più bui, nulla. Perché ero in coma farmacologico. Quando sono uscito dal coma ho attraversato un periodo piuttosto lungo di riavvicinamento alla luce. E da quel momento ho immagini e sensazioni pesanti da ricordare. Nel dormiveglia giravo gli occhi e vedevo che il mio vicino di letto non c’era più. Ricordo il bip delle apparecchiature sanitarie, il soffio a intervalli regolari del respiratore… Da non augurare nemmeno a chi ha deciso di non vaccinarsi».
Ma non c’era solo dolore e disperazione.
«Ricordo anche tanto amore. Da parte dei medici ai quali devo la vita. Ricordo l’umanità di tutto il personale della terapia intensiva, dall’ultimo al primo».
Due anni fa si disse che erano angeli, eroi civili. E oggi, passati due anni, pare che molti si siano dimenticati di loro. A partire da chi aveva promesso attenzione, aumenti di stipendio, encomi solenni.
«Io non ho dimenticato. Chi ha avuto la sfortuna di capitare dentro il ciclone della pandemia ha sperimentato la fortuna di avere incontrato queste persone, di averne incrociato lo sguardo della compassione, della condivisione. Una umanità straordinaria, fatta di volti anonimi, perché bardati come palombari, che ti prende la mano e ti fa sentire un essere speciale. Finché vivo, quei volti e quegli sguardi resteranno dentro di me».
Lasciata la terapia intensiva è stato trasferito all’Eremo di Arco…
«Dove mi hanno insegnato a respirare senza bombola d’ossigeno, a camminare, a farmi credere che avrei potuto ricominciare a vivere».
Una sorta di svezzamento, quindi?
«Quando arrivi lì pare impossibile che tu possa tornare a vivere. Un caro amico, che fa il medico, mi aveva portato l’esempio di un suo conoscente che aveva vissuto la mia stessa, drammatica, esperienza. E mentre io ero lì, mi diceva, quel suo conoscente era già tornato a lavorare. Con ciò spronandomi a credere che la soluzione sarebbe stata così anche per me».
Quel suo amico aveva proprio ragione.
«Sì, la soluzione è stata questa. A due anni da quel ciclone che mi ha catapultato negli abissi della pandemia, sono qui che lavoro. Un po’ ammaccato, e cerco di non farci caso, ma vivo».
Che cosa è rimasto di quella disavventura?
«È difficile da descrivere. A livello fisico non sono più quello di prima, tuttavia ho capito che si vive anche con molto meno. Non è quello che ho perso fisicamente che mi dà pensiero. Resta la paura di dovermi ritrovare in una situazione analoga a quella di due anni fa. Il resto è vita e vale davvero la pena di viverla e di gustarla fino in fondo. Tra l’altro quando sono tornato a vivere mi sono ritrovato con due nipotini appena nati. Una gioia infinita. E poi ho scoperto una folla di amici che hanno manifestato una vicinanza e un affetto che non avrei mai immaginato».
Come è cambiato, se è cambiato, il suo rapporto con le persone?
«È cambiato tanto perché dai valore diverso a determinate cose e non lo dai più o lo dai meno ad altre. Dai valore al tempo, alle persone, alle parole. Dai valore ai sentimenti in maniera diversa».
E la famiglia che ruolo ha avuto?
«Nel mio caso credo sia stata un’ancora alla quale mi sono e sono stato tenuto aggrappato. Mia moglie Sandra, che è stata straordinaria, i miei tre figli… Devo pesare le parole perché mi prende ancora adesso un nodo alla gola».
A proposito di ancora, pratica ancora lo sport della vela?
«Continuo perché libera la mente, ritrovo gli amici di sempre. E il vento gonfia le vele della vita».