il protagonista

venerdì 3 Febbraio, 2023

Andrea Castelli: «Il mio Sol tutto esaurito, ghò la pèl de gàlina»

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L'attore: «Anni di esilio da Trento, l’ultimo a Lugano. Adesso ho fatto pace con la mia città e agli spettacoli arrivano i giovani»

Figlio d’arte, (suo papà, Silvio, fu a lungo regista del «Club Armonia», autore teatrale), 73 anni il 24 febbraio, Andrea Castelli, autore e attore da più di mezzo secolo, è tornato a riempire i teatri della città e della periferia. Lo ha fatto con «Sol» remix di un monologo scritto 36 anni fa (testi pubblicati da «Vita Trentina» sotto la rubrica «Castelli in aria») e che sarà riproposto al teatro Sociale a Trento (ma i posti sono già esauriti) il prossimo 5 aprile. Il ritorno a casa del «figliol prodigo» dopo un vagabondaggio di vent’anni su e giù per la penisola e pure in Svizzera. «L’ultima stagione l’ho fatta con il teatro di Lugano. Ho recitato in dialetto trentino al “Bellini” di Napoli e pagato in franchi svizzeri».
Andrea Castelli, pace fatta con Trento?
«Sì, ma no ho mai begà mi, mai litigato con Trento. Erano alcuni personaggi della città che solo a sentire il mio nome avevano l’orticaria. Non ti dico quando Marco Bernardi mi ha chiamato a Bolzano dove ho fatto 21 stagioni con il Teatro Stabile…».
Allora aveva ragione il Vangelo di Luca con quel passo: «Nemo propheta in patria»?
«Mio nonno materno, buonanima, diceva: “Se a Trent te vanzi su, i te sgualiva”».
Quando era cominciato l’ostracismo nei suoi confronti?
«Da parte dei vertici del Centro Santa Chiara nei primi anni Ottanta. Una ragazza che lavorava in quegli uffici mi ha riferito che, in quel periodo, il mio nome non si poteva neanche pronunciare».
Che cosa aveva fatto al direttore del Centro Santa Chiara?
«Me lo sono chiesto più volte e non ho trovato alcuna spiegazione».
Per i suoi 70 anni il Comune di Trento le ha assegnato l’Aquila di San Venceslao. Il disgelo con la città è cominciato lì?
«Sì, direi proprio di sì. Con il sindaco Alessandro Andreatta che ha pronunciato lodi ed encomi perfino imbarazzanti; e la laudatio di Marco Bernardi e di Sandra Tafner. Dopo ci siamo fermati. È stato l’ultimo giorno, il 24 febbraio 2020, prima del lockdown. Quel giorno compivo settant’anni. I scominziava a serar su, ma a Trent no ghèra ancora sta casi de covid. Almeno che si sapesse in giro».
Si dice che «en Trentin da sol el rumega…». Lei è un brontolone?
«Sì, sì, almeno tendo ad esserlo. Forse un’eredità materna. Brontolo perché qualsiasi cosa tu faccia o dica susciti gelosie, anche se auguri solo “buon giorno” o “salute”. C’è sempre chi replica: “Pensà ala vossa”».
A proposito di «Sol», un remix dopo 36 anni che sta facendo il «sold out», detto in dialetto: «tut pien», ovunque sia in cartellone. Lei ha una spiegazione a questo successo?
«Soddisfazione è riduttivo come parola. Non mi aspettavo un successo così. Da pelle d’oca («m’è vegnù la pèl de galina») quando ho visto il teatro Sociale strapieno».
Chi sono i trentini che la vengono ad ascoltare?
«Soprattutto giovani, cavolo. Perché l’è quei che la mama, la nona, i li portava ai primi spetacoli o i ghe fèva veder le cassette (le registrazioni in videocassetta prodotte dalla Sirio film di Enzo Merz). E adesso affollano il teatro».
La prima di «Sol-remix» deve essere stata da brivido…
«Quando è partì la musica, la prima sera, ghè stà ‘n boato. Ala Nicoletta, che la era dré ale quinte, ghè vegnù da pianzer. E mi son restà lì come en paiàzzo».
Dopo gli esordi con il Club Armonia ha fondato gli «Spiazaròi», una compagnia di sana goliardia teatrale. Ed ha cominciato a scrivere testi. Perché, quelli del papà Silvio erano superati?
«Avevamo messo in scena tutto il repertorio di quelle commedie e mi ero stufato di quelle trame, sempre le stesse: c’era la figlia che voleva sposare uno da Verona: il papà si arrabbiava perché non voleva “teròni” per casa; la nonna aveva l’Alzheimer e non capiva un accidente; il parroco arrivava, dava benedizioni per tutti i corridoi, el sbagliàva el bandòn e l’era sgnàpa… Ridi una volta, due, ma poi è la stessa minestra. Mio papà ne aveva scritte un paio: “La not dele streghe, l’ultima not de carneval a Trent” e “El camp dei frati”, traduzione in dialetto trentino di “Un piccolo campo” di Peppino de Filippo».
Dopo «Sol» (1986), arrivarono in lunga sequenza altri venti monologhi: da «Oblò» (1990) a «Pio» (1992), da «Trentini e Trentoni» (2012) a «Diario di Bordo» (2020). Filo conduttore della maggior parte dei testi: una sana presa in giro dei modi di dire e di fare dei trentini.
«Non sempre e non tutto. Io racconto delle storie normali che capitano a tutti. Rivivono, si riconoscono nel personaggio e ridono. In termini tecnici si chiama “agnizione”».
Molti testi dei suoi monologhi sono in dialetto o, per fare i leziosi, in lingua autoctona. Come è cambiato, se è cambiato negli anni, il dialetto trentino?
«Tant. Me papà, ‘n dei ani Sessanta el dropàva en dialèt che nei anni Domili, quando che l’è mort, l’èra za cambià. Zerti termini no i ghè pu. Sparìdi i è. Per farlo capire a Napoli, nel testo c’era solo una parola: destràni (nostalgia). Ma i napoletani, che sono avanti di un mondo, ridevano alle mie battute. Invece, certi trentini, quando sanno che vado a Bolzano mi chiedono: ma a Bolzàn capìssei? Allora viene da ridere a me. Quando sono andato a Napoli ero terrorizzato, anche perché entri in un teatro dove, alle pareti, sono appese le fotografie di Totò, Edoardo de Filippo, … e mi chiedevo: ma io che cosa ci faccio qui? Poi piomba in camerino la direttrice e mi dice soave che non conosceva l’armoniosità di questo vostro dialetto trentino… E dopo tanto parlare dice con nonchalance: beh, adesso devo scappare perché ghò fam».
Ma ci sono stati anche lavori in lingua italiana, segnatamente di «teatro civile», no?
«Con il Cermis ho portato il monologo in tutta Italia».
Ha lavorato con Dario Fo, ha interpretato il Goldoni e Bernard Shaw con lo «Stabile» di Bolzano. Ma ha pure prestato volto e voce per il cinema. Ricordiamo la sua interpretazione del papà di Alcide Degasperi nel film per la televisione.
«Ho insegnato il dialetto a Fabrizio Gifuni perché la regista, Lilliana Cavani, s’era posta il problema: non poteva, disse, a fine Ottocento parlare in italiano con il figlio. Sporcami il dialogo con il dialetto. Per me è stato un invito a nozze».
Lei ha fatto anche il doppiatore…
«A Verona doppiavo cartoni animati, telenovelas – do cojoni -, e film, soprattutto polizieschi, per la Rai. A me toccava sempre la parte o del nero o del prete. Poi mi sono stufato».
Tredici anni di lavoro alla RAI come annunciatore e programmista regista. Avrebbe potuto fare il giornalista e quando glielo proposero imitò Celestino V, colui che fece il gran rifiuto. E si dimise dalla Rai, perché?
«Perché non ero assolutamente tagliato per quel mestiere. Il richiamo del teatro era più forte. Molti mi sconsigliavano quel passo e invece è stata la mia fortuna».
Veramente, la sua fortuna è stata che alla Rai ha conosciuto Nicoletta Girardi che poi è diventata sua moglie. Compagna di vita e di teatro. Senza di lei che Andrea Castelli sarebbe?
«Diverso, credo. Lei è molto complice, nel senso che la me tènde su zerte robe, sull’uso del dialèt, per esempio. E poi è preziosa come collaboratrice, anche come costumista; ha fatto pure il direttore di palco. Sempre insieme. Tra le quinte mi dà il tempo e le scadenze».
Per molti anni, e forse ancora oggi, per l’universo mondo è girata una registrazione audio giocata su una novità tecnologica degli anni Ottanta: la segreteria telefonica. Com’è nata quella burla?
«Ho fatto uno scherzo a Luca Boscheri, un mio amico, perché avevo scoperto che traslocava dal suo studio di registrazione. Sua mamma aveva il compito di andare ad ascoltare la segreteria telefonica intanto che lui era in vacanza, al mare. E allora ho inventato la storia del Tullio, con un camionista che deve scaricare “gabioni per i pomi” e non trova nessuno che lo aiuti. Se avessi ricevuto un centesimo per ogni persona che l’ha scaricata da YouTube, oggi sarei milionario».