Campi liberi
domenica 23 Febbraio, 2025
di Margherita Montanari
All’inizio di agosto 2018, con un decreto d’urgenza, il governo ungherese propose la chiusura del prestigioso e frequentato master in Studi di Genere della Central European University (CEU) di Budapest. Una decisione che rappresentò un grave attacco alla libertà accademica. Ben presto, questa misura si intrecciò con una minaccia diretta alla libertà di chi aveva portato avanti quel corso di studi. La figura centrale di questa vicenda è Andrea Petö, storica ed esperta ungherese di studi di genere, insignita nel 2018 del Premio Madame de Staël per i valori culturali e, nel 2022, del Premio per i Diritti Umani dell’Università di Oslo. Fino al 2018, Petö ha insegnato presso il dipartimento di Studi di Genere della Central European University di Budapest. Poi è stata costretta a lasciare il Paese, diventando una «rifugiata accademica» in Austria. Insieme a lei, anche il master in Studi di Genere ha trovato asilo a Vienna. Ma perché questa disciplina è considerata tanto scomoda da spingere un governo a esiliare «la più prestigiosa istituzione accademica del Paese»? Secondo Petö – intervenuta la scorsa settimana a Trento per il convegno nazionale sugli studi di genere D’amore e di lotta – le questioni di genere sono ormai «un campo di battaglia» e non dovremmo sorprenderci se i governi illiberali continueranno a strumentalizzarle per costruire «un nuovo interesse a lottare contro la democrazia liberale».
Petö, se dovesse definire la fase che le politiche di genere stanno attraversando, quale definizione userebbe?
«Il tema del genere è e sarà in prima linea nelle lotte politiche dei prossimi anni. La destra ha costruito una narrazione per rendere la nozione di genere come una minaccia e ha costruito il concetto di “ideologia di genere” per demonizzarlo e costruire attorno ad esso un nuovo interesse a lottare contro la democrazia liberale. A mio avviso, stiamo assistendo a una nuova guerra fredda all’insegna del genere».
Lei ha studiato gli attacchi a cui sono stati sottoposti i programmi di studi di genere nell’est e nel centro Europa da parte di cosiddetti movimenti «anti-gender» e dei governi illiberali. Quali sono le conseguenze di questa esposizione pubblica sugli studi di genere?
«Negli ultimi tempi l’interesse verso gli studi di genere è aumentato. Al tempo stesso, gli studiosi che se ne occupano sono diventati bersaglio di attacchi pubblici, soprattutto online: vengono indicati come nemici della nazione sulle prime pagine dei giornali nazionali, nel tentativo di metterli a tacere. Questi attacchi sistematici e sistemici agli studi di genere fanno parte delle campagne anti-gender associate al movimento anti-gender, molto diffuse in Europa. Sono una risposta nazionalista e neoconservatrice a una triplice crisi: migratoria, finanziaria e di sicurezza. Il genere è diventato il collante simbolico per alleanze costruite sull’odio, tese a ridefinire ciò che è “normale” e a creare alternative alla democrazia liberale. Di riflesso alle campagne anti-gender, è come se gli studi di genere fossero diventati una scienza popolare: chiunque fa dichiarazioni pubbliche senza alcuna conoscenza o formazione negli studi di genere. Questo ne mina il valore e la legittimità».
In che modo le politiche del governo ungherese hanno limitato la ricerca nel suo Paese?
«Tutto è iniziato durante il primo governo Viktor Orbán (1998-2002), che ha visto l’avvio del processo per ecclesiasticizzare il sistema educativo ungherese. È tipico delle forze illiberali spendere molti soldi, spesso pubblici, per costruire sistemi di istruzione superiore paralleli, per fini strategici. Perché questi regimi conoscono bene la sua importanza: controlla la produzione di conoscenza, la sua distribuzione e orienta la costruzione delle future classi dirigenti. Lo Stato ungherese, illiberale, ha smantellato il sistema educativo per finanziare la costruzione di un nuovo schema funzionale agli obiettivi del governo».
La sua storia di docente della Central European University (CEU) in Ungheria incontra, a un certo punto, la censura. Tanto che il corso di laurea in cui lei insegna viene chiuso. Cosa è successo?
«Era chiaro da tempo che quello con il governo sarebbe stato un rapporto difficile. Fin dal 2008 un deputato del partito di governo Fidesz parlò della cosiddetta “ideologia di genere”, definendola “l’inizio della presa di potere della cultura della morte”. Capii che l’inverno stava arrivando. L’espressione “cultura della morte” e il discorso associato vengono utilizzati dal movimento anti-gender per alimentare odio e paura nei confronti degli studi di genere e del loro focus sull’uguaglianza. Poi, un giorno, un decreto del governo ungherese ha cancellato un corso di laurea magistrale accreditato e ben avviato in studi di genere, che vantava alti tassi di iscrizione e ottimi risultati occupazionali. Il programma era offerto da due università a Budapest: la Central European University (CEU), un ateneo privato che lo proponeva in inglese dal 2006, e l’Università pubblica Eötvös Loránd (ELTE), che lo aveva introdotto in ungherese nel 2017».
Come è stata giustificata la chiusura?
«I politici al governo hanno fornito ai media diverse giustificazioni che suonano come menzogne. Inizialmente è stato detto che si trattava di un modo per risparmiare il denaro dei contribuenti. Peccato che il programma della CEU non fosse finanziato dai cittadini ungheresi, trattandosi di un’università privata. Poi il governo ha sostenuto che il mercato del lavoro non avesse bisogno di laureati in studi di genere. Eppure, dal 2006, la CEU ha formato 139 persone e, secondo un report degli ex studenti, tutti hanno trovato ottime opportunità di impiego in vari settori. Più avanti è stato detto che gli studi di genere non sarebbero compatibili con il cristianesimo e i valori cristiani. Infine, si è giustificata la chiusura con lo scarso interesse riscontrato tra gli studenti. In realtà, alla CEU, per i 22 posti disponibili, ogni anno si candidavano oltre 200 studenti. Ci sono state reazioni dell’opinione pubblica, lettere di protesta, dichiarazioni ufficiali e manifestazioni contrarie a questa scelta: il governo le ha semplicemente ignorate».
L’estrema destra oggi se la prende anche con il femminismo, i diritti riproduttivi e il diritto all’aborto delle donne.
«Gli attacchi ai diritti riproduttivi rientrano nel repertorio di un movimento globale e transnazionale che, da oltre un decennio, agisce su più livelli: a livello locale, colpendo cliniche e attivisti; a livello nazionale, attraverso una contro-rivoluzione in ambito legislativo; e a livello internazionale, mettendo in discussione gli accordi che garantiscono i diritti umani universali. Le forze politiche progressiste non hanno colto i segnali evidenti che i diritti riproduttivi, così come le questioni di genere, sarebbero diventati un campo di battaglia. Le forze illiberali, infatti, non si limitano a criticare i quadri giuridici, ma stanno costruendo istituzioni alternative, riscrivendo i diritti e creando un nuovo linguaggio legato alla riproduzione».
Quali possono essere strategie efficaci contro gli attacchi alla produzione scientifica legata a questi temi?
«È necessario un cambiamento radicale nel modo in cui viene prodotto il sapere. Nell’ambito degli studi di genere, alcuni colleghi ritengono che la strategia migliore per rispondere ai recenti attacchi alla libertà della scienza sia rifugiarsi nella torre d’avorio della ricerca, fingendo che gli studi di genere siano una disciplina come tutte le altre. Questa è una strategia destinata a fallire: gli studi di genere sono sempre stati guidati dall’esperienza degli oppressi e degli emarginati, con l’obiettivo di avere un impatto sociale. Fare ricerca nell’attuale contesto politico, in cui i regimi illiberali attaccano la scienza, è già di per sé una forma di resistenza. Tendiamo a credere che il lavoro accademico sia tutelato, ma anche questa certezza sta svanendo. L’università mi ha assegnato una guardia del corpo, dopo che avevo ricevuto minacce di morte su cui la polizia si era rifiutata di indagare. Cosa fare a questo punto? Il primo passo è ridare slancio alla lotta politica, combattere per il diritto alla libertà scientifica. La mia più grande paura è che il senso di impotenza e stanchezza degli studiosi di questo ambito, rispetto agli attacchi ricevuti, conduca a una sorta di autocensura».
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