L'approfondimento

domenica 2 Marzo, 2025

Anziani e cura, l’analisi di Dal Bosco (Opera Romani): «Caregiver poco riconosciuti, il sacrificio porta frustrazione»

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Lo psicologo: «Il familiare malato può diventare un peso per chi se ne occupa. Questi può accusare anche deterioramento psicologico e conflitto emotivo. La comunità, assieme ai servizi, devono farsene carico»

«Quanto successo a Riva è un evento tragico, mi sento di dire che non è un crimine: è sintomo di un problema più ampio, la punta di un iceberg. Proprio con fatti di questo tipo che scuotono la società si deve cominciare a pianificare interventi, con le istituzioni protagoniste nell’intercettare situazioni di questo tipo. Bisogna fare in modo che abbiano un riconoscimento comunitario. E fare prevenzione. Darci degli strumenti di prevenzione». Livio Dal Bosco, psicologo e psicoterapeuta, direttore della Apsp Residenza Valle dei Laghi di Cavedine e della Apsp Opera Romani di Nomi, si focalizza sulla figura del caregiver, di «colui che si prende cura», in particolare dei familiari che assistono in modo continuativo un loro congiunto anziano, ammalato, spesso con demenza e disabilità. Una situazione sempre più frequente in una società che invecchia a vista d’occhio.
Dottor Dal Bosco, perché si parla di «peso della cura»?
«Perché il caregiver può avere delle conseguenze importanti in termini di sovraccarico emotivo e psicologico, accusare stress e fatica cronici, assieme a deterioramento psicologico. Può farsi prendere da disperazione, solitudine, frustrazione e impotenza. E il malato allora diventa un peso, un qualcosa di diverso da un familiare, proprio perché c’è un vissuto psicologico. E non manca il conflitto emotivo».
In cosa consiste questo conflitto emotivo?
«È un’ambivalenza: da una parte c’è l’amore del caregiver per il familiare di cui si prende cura, dall’altra la rabbia repressa che lo porta a sentirsi intrappolato in un ruolo, senza via d’uscita. Con il parente da assistere che diventa fonte di frustrazione e impotenza appunto. Tutti elementi, questi, che portano a un punto di rottura. Situazioni difficili e sempre più comuni dato l’andamento demografico».
Perché il caregiver allora non cerca supporto?
«Spesso ci sono vergogna e senso di colpa che impediscono di chiedere aiuto. E c’è senso di solitudine, isolamento. E il mancato riconoscimento sociale del ruolo, del sacrificio del caregiver, non fa che amplificare il suo stato. Sono sempre di più le persone in estremo disagio».
Qual è quindi la risposta da dare? Come si può intervenire e prevenire?
«Avviando gruppi di sostegno, di auto-aiuto; fornendo al caregiver supporto psicologico costante assieme a servizi di assistenza potenziati. Ma all’interno della comunità. Il caregiver deve potersi sentire supportato e avvertire la solidarietà. Perché è proprio la comunità, assieme ai servizi, che devono farsi carico di queste figure diffuse. Il tutto in un quadro di sensibilizzazione sociale per un riconoscimento comunitario al caregiver del suo ruolo, del suo sacrificio. A mio avviso bisogna pianificare un cambio di paradigma e questo vale per le rsa (le residenze sanitarie assistenziali ndr) come per gli interventi a domicilio».