L'intervista

venerdì 30 Agosto, 2024

Arrigo Sacchi si racconta: «Gli inizi in fabbrica, lo “scherzetto” di Galliani e poi il Milan dei campioni»

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France Football l'ha definito «l'allenatore italiano più importante di sempre». Il ricordo: «Da piccolo tifavo Ungheria, mia madre mi avvertiva: "Guarda che sono comunisti"»

Nel calcio, così come nella vita, ci sono le categorie. C’è chi perde, chi vince e chi, invece, viene definito fuoriclasse. Personaggi, quest’ultimi, che tramite le proprie idee ed il proprio credo, hanno cambiato radicalmente il corso degli eventi, scrivendo alcune delle pagine più importanti della storia di questo sport attraverso imprese che verranno tramandate di generazione in generazione. Tra questi Arrigo Sacchi, definito da France Football come l’allenatore italiano più importante di sempre. Partito dalla provincia di Ravenna, dove lavorava come venditore di scarpe, in vent’anni di carriera «il profeta di Fusignano» ha ridefinito il modo di vivere e di concepire il calcio, guidando quella che – secondo la Uefa – è stata la squadra più forte della storia: il Milan degli immortali. Un personaggio divisivo, amato e allo stesso tempo criticato, capace di conquistare un posto nell’Olimpo grazie ad una scalata unica e per certi versi inimitabile, che lo ha visto protagonista ovunque sia stato: dalla seconda categoria alle massime competizioni internazionali.

Sacchi, che persone era prima di diventare uno degli allenatori più importanti di sempre?
«Ho sempre amato il pallone, mio padre faceva il calciatore ed era anche il maggiore azionista di due calzaturifici dove producevamo scarpe. Io giocavo nel Baracca Lugo ma, dopo alcuni problemi di salute di mio papà, decisi di mollare per entrare in fabbrica, dove ho lavorato per 6 anni. In seguito, con il Fusignano che giocava in Seconda categoria, il bibliotecario Alfredo Belletti, un uomo di una cultura infinita, mi chiese di aiutare la squadra. Ci salvammo ma mi resi conto che non avrei potuto continuare per un forte mal di schiena. A quel punto, Belletti, mi propose di allenare nonostante non sapessi come funzionasse questo mestiere. Mi disse che ce l’avrei fatta e dopo appena un mese già parlavo come un mister. Chiesi di comprare un libero e lui mi rispose “Che numero vuoi dargli?”, risposi “il 6”. A quel punto andò nello spogliatoio, prese la maglia numero 6 e mi disse “Ora sei un allenatore, trova il tuo libero tra i giocatori a disposizione“. Voleva che dessi un’impronta alla squadra con idee chiare, diceva che dovevo amare quello che facevo e portarlo avanti con passione».

La sua filosofa di gioco era già chiara a quei tempi?
«Non proprio, Belletti però diceva che avrei dovuto costruire qualcosa attraverso idee e lavoro. Da quel momento ho trascorso tre anni a Fusignano per passare poi all’Alfonsine e in seguito al Bellaria in quarta serie, dove però non avevo il patentino per allenare. Come mister figurava un’altra persona e io dirigevo dalla tribuna, urlando. Dopo sei partite facemmo solo un punto e decisi di dimettermi, ma il presidente mi fermò e a fine campionato arrivammo vicini alla promozione in Serie C. Quando ero bambino, invece, guardavo il mondiale e tifavo per l’Ungheria. Mia mamma mi diceva sempre “Ma Arrigo, sono comunisti!”. Erano pure comunisti ma giocavano bene. Avevo sette anni e amavo il calcio di dominio».

Poi il Cesena e la vittoria dello scudetto primavera, il primo grande successo…
«Dissi al presidente che se avesse comprato Zoratto avremmo vinto il campionato. Lui arrivava dal Casale Monferrato, dove lo pagavano 50 mila lire al mese, pasti esclusi. Mangiava una sola volta al giorno e mi divertivo a dire che giocava nel Casale “T’han fregato”. Facemmo una stagione incredibile battendo tutte le più forti, tra cui Juventus, Inter, Bologna, Fiorentina e l’Avellino in finale».

Dopo diverse esperienze la svolta della carriera arriva nel 1985, al Parma. Ricorda l’esordio con sulla panchina crociata?
«Sì, pareggiammo 0-0 a Trento. Era la prima partita del campionato e non riuscimmo a vincere. Quell’anno conquistammo la promozione e arrivammo settimi in B nella stagione seguente. Inizialmente sarei dovuto andare all’Ancona ma il presidente non mi aveva convinto».

Nello stesso periodo, inoltre, elimina il Milan dalla Coppa Italia attirando le attenzioni di Berlusconi.
«Eravamo nel girone con il Milan e giocammo a San Siro, vincendo 0-1 grazie alla rete di Fontolan. Dopo la gara venne Berlusconi e mi fece i complimenti promettendo che mi avrebbe seguito in campionato. A febbraio tornammo a giocare contro i rossoneri e vincemmo nuovamente 0-1, eliminandoli dalla Coppa. Pochi giorni più tardi, Ettore Rognoni, mi chiamò dicendo che Berlusconi voleva incontrarmi. Il presidente sapeva che in quel periodo avevo già un appuntamento con la Fiorentina e mi chiesero di rimandarlo. Chiamai Rognoni e dissi: “Ringrazia Berlusconi ma non posso rimandare”. Lui rispose: “Ma sei matto, ho già parlato con Galliani e al 99% sei l’allenatore del Milan”».

E poi?
«Non potevo rimandare. Dopo un allenamento, però, tornai a casa e mia moglie mi disse che Rognoni mi aveva cercato nuovamente. “Domani ti vengo a prendere e andiamo a Milano”, mi disse. Mi ritrovai con Galliani, Confalonieri e altre persone. Berlusconi mancava perché aveva un appuntamento con la Carrà e Pippo Baudo. Entrai nell’ufficio e dissi “O siete dei geni o siete dei pazzi, comunque avete avuto coraggio: questa è la mia firma, scrivete voi la cifra che volete”. Quel birbante di Galliani scrisse una cifra inferiore rispetto a quella che prendevo a Parma (ride; ndr)».

Da lì la nascita de «Il Milan degli immortali»…
«Al mio primo anno dissi ai ragazzi che saremmo dovuti essere una squadra vera, unita, capace di comandare il gioco. Sapevo che sarebbero diventati sempre più forti e così poi fu. Inizialmente partimmo male, perdendo alcune partite. Berlusconi convocò tutta la squadra nel suo ufficio e disse: “Ho totale fiducia in Arrigo, chi lo segue resta, chi non lo segue verrà ceduto. Buona giornata”. Concluse il discorso in trenta secondi».

Era legato a Berlusconi?
«Sì. Non ho mai saputo dargli del tu e poco prima che morisse mi disse di mettermi davanti ad uno specchio e ripetere ad alta voce “Silvio è uno stronzo” per tre volte, cosicché potessi prendere confidenza (ride, ndr). Negli ultimi anni mi aveva proposto di allenare il Monza, offrendomi una casa con il maggiordomo. Alla fine non si fece nulla».

Come ricorda i successi rossoneri?
«Abbiamo giocato in modo straordinario, nessuno di noi si rendeva conto di cosa stessimo facendo. Abbiamo dato tutto. Gullit fu una sorpresa positiva, diede forza e convinzione al gruppo. Poi c’era Van Basten che era davvero un grande giocatore. Eravamo una squadra vera. La Juve in 60 anni ha vinto due Coppe dei Campioni, noi due in tre anni. Una volta, contro l’Inter, Altobelli disse che giocavamo in quindici per quanto correvamo. In realtà erano le altre squadre che tenevano diversi giocatori in difesa, io invece ho sempre pensato che senza il rischio si sarebbe caduti nella miseria».

Nel 1991 la chiamata in nazionale. Come ricorda il mondiale del 1994 negli Usa?
«Quando abbiamo iniziato quell’avventura nessuno diceva che saremmo potuti arrivare in finale. Dopo le prime due gare si fecero male Evani e Baresi, mentre Baggio giocava con il dolore al ginocchio. È stato un percorso difficile, noi giocavamo nelle costa est dove faceva molto caldo, con picchi di quasi cinquanta gradi. Arrivati in finale contro il Brasile, i giocatori non avevano più le gambe, tant’è che i massaggiatori mi dissero che non c’erano nemmeno più i muscoli. Sono stati degli eroi, dando tutto quello che potevano».

Come ha vissuto le polemiche nei suoi confronti?
«Leopardi diceva che siamo un Paese di ignoranti e invidiosi. Ancora oggi alcune persone parlano di quel mondiale nonostante ci sia una nazionale che non raggiunge il torneo da otto anni. Noi siamo arrivati secondi, perdendo solo ai rigori. Dissero anche che andai in azzurro per soldi, quando in realtà il Real Madrid mi aveva offerto cinque volte tanto. Davo fastidio a molti».

La sua ultima esperienza è all’Atletico Madrid, perché scelse di ritirarsi?
«A fine carriera avevo una gastrite che mi stava uccidendo. Ho dedicato al calcio 20 anni della mia vita e non ero più disposto ad andare avanti. Oggi ovunque vada mi chiedono autografi, le persone hanno capito cosa ho fatto. Ho sempre fatto cose semplici, il calcio è uno sport di squadra»