L'INTERVISTA
lunedì 16 Ottobre, 2023
di Simone Casciano
La guerra, come l’odio, è un mostro che alimenta se stesso. Lo diceva mesi fa proprio sulle pagine de il «T» Francesco Strazzari riferendosi all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e prevedendo che il conflitto sarebbe andato avanti ancora a lungo. Guardando a quello che sta succedendo tra Palestina e Israele, l’escalation sembra dare ragione al professore di geopolitica. Se sabato scorso è stato il giorno dell’attacco di Hamas, venerdì è la data in cui è cominciata l’invasione a Gaza da parte dell’esercito israeliano. In mezzo a questa spirale di odio rimangono i civili, caduti a centinaia da entrambe le parti. Come in 7 giorni la situazione sia precipitata, cosa può accadere ora e quale ruolo può giocare l’Italia sono domande diventate quotidiane. Abbiamo chiesto le risposte ad Arturo Marzano, professore di Storia del Medio Oriente all’Università di Pisa e esperto del conflitto israelo-palestinese.
Professore, quali sono le cause recenti di questa nuova escalation nel conflitto?
«Il motivo del successo di questa operazione di Hamas, un massacro terribile da condannare nettamente, va individuato sicuramente in un fallimento dell’intelligence israeliana, ma servirà tempo per capire esattamente cosa sia successo. Ci sono poi altri tre fattori da tenere in considerazione. Il primo è un governo, quello israeliano, che negli ultimi dieci mesi si è incagliato nella riforma della giustizia, a cui hanno fatto seguito grandi proteste e un braccio di ferro enorme tra la maggioranza e le piazze e tra il governo e la magistratura israeliana, uno scontro che ha portato a lasciare in secondo piano altre questioni. Il secondo è che si tratta di un governo sostenuto oltre che dal Likud, anche dal Partito sionista religioso, che ha finito per avvallare comportamenti sempre più violenti da parte dei coloni in Cisgiordania verso la popolazione civile palestinese. Un’escalation dello scontro che ha richiesto più attenzione dell’esercito a discapito del controllo di Gaza. Il terzo fattore è l’avvicinamento di Israele ai paesi arabi, che nel paese ha rafforzato l’idea che Israele potesse essere considerata parte del Medio Oriente dai paesi del Golfo senza coinvolgere i palestinesi. Gli ultimi governi israeliani si erano convinti che si potesse gestire la Palestina come un problema a parte, mentre nel frattempo la normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi portava mutui vantaggi in termini economici. Tutto questo è avvenuto mentre la situazione a Gaza, che negli ultimi 15 anni è sostanzialmente divenuta una prigione a cielo aperto da cui non è possibile entrare o uscire salvo rari casi, peggiorava drammaticamente».
Che ruolo hanno avuto gli Stati Uniti?
«La presidenza Trump è stata un unicum anche nella storia degli ottimi rapporti tra Usa e Israele. Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e ha permesso lo spostamento lì dell’ambasciata americana, cosa che nessuno degli ultimi presidenti americani aveva accettato. C’è stato un sostegno diretto a Netanyahu; nello specifico, la destra repubblicana ha avvallato le scelte del Likud, tra cui quella di bypassare i palestinesi nelle trattative diplomatiche con i paesi del Golfo. Chiaro però che anche i paesi arabi hanno responsabilità. Siamo lontani dalla proposta saudita del 2002 che proponeva il riconoscimento di Israele da parte della Lega araba solo dopo il ritiro completo dello Stato ebraico da tutti i territori palestinesi occupati nel 1967, cioè Gaza e la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est».
Non è la prima volta che Hamas lancia un’offensiva contro Israele a cui in passato hanno fatto seguito veloci e brutali risposte. Questa volta lo scenario sarà simile?
«È molto difficile rispondere. Il monito rivolto da Israele in queste ore a 1 milione 100mila persone di Gaza di abbandonare le loro case visto il proseguire dei bombardamenti è una cosa mai vista, gravissima, chiaramente illegittima secondo il diritto internazionale. Cosa succederà? Raderanno al suolo Gaza? La mezzaluna rossa non se ne vuole andare, perché vuole fare il proprio lavoro a sostegno delle vittime civili. Anche molti palestinesi non vogliono andare via, e questo non significa che siano dalla parte di Hamas; ma il ricordo dell’esodo del ’48 è ancora vivo, si parte e non si sa se sarà possibile fare ritorno alla propria casa. In tutto questo ci sono poi ministri israeliani che parlano di annichilimento di Gaza, parole gravissime. C’è poi l’ipotesi di fare un’operazione di terra, con i rischi che anche l’esercito israeliano correrebbe. La situazione attuale è che Gaza è senza acqua, cibo e elettricità, con due milioni di persone che rischiano la catastrofe., nel silenzio assordante della comunità internazionale e l’assenza di alcuna iniziativa diplomatica».
Qual è il ruolo dell’Iran in tutto questo?
«I prossimi mesi, se non anni, diranno quanto l’Iran abbia aiutato Hamas in termini di addestramento e di fornitura di armi. Il dato politico da sottolineare è che Hamas non è un braccio armato dell’Iran, non è eterodiretta. Hamas ha una sua agenda che non necessariamente coincide con quella dell’Iran. Ad esempio, i rapporti tra Iran e Hamas nel 2011 vissero una profonda incrinatura sulla questione siriana, con Teheran che supportava il governo di Bashar Al-Assad e Hamas che vi si opponeva. Certo, l’accordo tra Israele e Arabia Saudita era problematico anche per l’Iran, ma non credo sia stato il motivo principale che ha fatto muovere Hamas. Il massacro di centinaia di civili israeliani, pur nella sua atrocità e brutalità, per Hamas lanciava un messaggio politico chiaro: “Non ci può essere pace senza un accordo che includa la Palestina e dunque la fine dell’occupazione”».
Qual è il ruolo del Qatar?
«Il Qatar è chiaramente un paese chiave nel Golfo: pensiamo al ruolo di Al Jazeera e la sua capacità di influire sull’opinione pubblica araba, ma anche alla Coppa del mondo. Negli ultimi anni ha portato avanti una politica autonoma tra Arabia Saudita e Iran. Per quanto concerne i rapporti con Hamas, dal 2012 ospita Khaled Meshaal, ex presidente dell’ufficio politico di Hamas. Il Qatar in questi anni ha sostenuto finanziariamente Gaza, in un momento in cui questa era isolata. Questo faceva comodo anche a Israele, che così poteva continuare la propria politica di chiusura totale della striscia, pulendosi contemporaneamente la coscienza sapendo che c’era chi provvedeva. Al Qatar, contemporaneamente, ciò faceva comodo perché poteva dimostrare di essere vicino ai palestinesi. Questo ruolo di supporto a Gaza spiega perché ora possa aspirare ad essere un interlocutore credibile tra Hamas e Israele per il rilascio degli ostaggi. Una partita fondamentale e complicatissima».
Come si inserisce questa escalation nel quadro geopolitico più ampio già gravato dalla guerra in Ucraina? Russia e Cina hanno un ruolo anche in questo scontro?
«La Russia è chiaramente coinvolta. Nel conflitto tra Ucraina e Russia, Israele non ha sostenuto caldamente la prima per evitare di incrinare i rapporti con la seconda. Mosca è infatti la garanzia di Israele che in Siria le milizie di Hezbollah o i gruppi militari iraniani non si avvicinino troppo al territorio israeliano. Dopo l’attacco di Hamas, Zelensky ha colto la palla al balzo chiamando subito Israele in solidarietà, ma anche con lo scopo di ottenere un maggiore sostegno a sua volta. Questo ha raffreddato i rapporti tra Russia e Israele, tanto che Putin non si è fatto vivo con Netanyahu. La Cina ha avuto con Israele rapporti sempre più stretti in questi ultimi trent’anni, soprattutto commerciali, con l’acquisto da parte di colossi cinesi di compagnie israeliane. Adesso la Cina prova a porsi come interlocutore tra Israele e Hamas, ma non credo abbia possibilità di riuscirci».
Siamo alle porte di una «terza guerra mondiale»?
«Penso sia esagerata come interpretazione. Bisogna certamente aspettare per vedere come si sviluppa l’azione di terra. Il rischio concreto è che possa esserci un intervento di Hezbollah, ma non credo il conflitto possa estendersi più di tanto. Non credo pertanto a una terza guerra mondiale».
L’Italia un tempo aveva un ruolo privilegiato come interlocutore di molti paesi del nord Africa e del Medio Oriente, oggi sembra aver perso questa caratteristica unica tra i paesi Nato, è così?
«È assolutamente così e la grande “svolta” è dovuta al governo Berlusconi 2001-2006. Un cambiamento drastico che ha visto l’Italia porsi su posizioni filoisraeliane, privilegiando i rapporti con Washington a quelli con Bruxelles. L’avvicinamento a Israele serviva a Berlusconi per varie ragioni. In politica estera, innanzitutto, per avvicinarsi ulteriormente agli Stati Uniti. In politica interna, il sostegno a Israele della sua coalizione permetteva a Fini e ad An di mettere a tacere le accuse di antisemitismo. La data chiave di questa svolta è il settembre 2003 proprio in Trentino, a Riva del Garda. In quell’occasione si tenne il vertice dei ministri degli esteri dell’Unione europea che definì anche l’ala politica di Hamas un’organizzazione terroristica proprio sulla spinta dell’Italia e del ministro Frattini. Una posizione diametralmente all’opposto a quando, nel 1980 al Consiglio europeo di Venezia, l’Italia spinse l’Europa verso il dialogo con l’Olp. L’Italia ha dunque perso quella capacità di giocare una partita autonoma con i paesi arabi».
Quali sono gli orizzonti di pace? Valgono ancora gli accordi di Oslo oppure sarebbe necessario un nuovo trattato?
«Oslo è morto nei primi anni Duemila. Era un accordo che aveva molti limiti e forse era destinato a fallire dall’inizio, ma certamente la Seconda Intifada è stata la sua pietra tombale. Ma negli ultimi anni è uscito di scena anche il principio di due popoli – due stati: non c’è più tempo e non c’è più spazio. Israele ha costruito così tanti insediamenti occupando così tanto territorio della Cisgiordania che immaginarsi due stati contigui, uno israeliano e uno palestinese, è ormai impossibile. Ed è peraltro impensabile che Israele dica ai coloni ad andarsene per il peso politico e militare che hanno. La soluzione che molti analisti propongono è quindi uno Stato unico tra il Mediterraneo e il Giordano. Ma questa possibilità ha un grande problema: la demografia. Israele è stato creato come Stato ebraico, ed è dunque fondamentale che si mantenga una solida maggioranza ebraica nel paese; ma oggi, se consideriamo tutta la popolazione residente nello spazio tra il Mediterraneo e il Giordano, il rapporto è quasi di 50/50. La popolazione ebraica israeliana sarebbe davvero disposta a dare pieni diritti di cittadinanza ai palestinesi, con elezioni libere sulla base del principio “una testa, un voto”? È il sogno di uno Stato unico multietnico cullato da alcuni, ma è difficilissimo da immaginare e il rischio è che nasca uno Stato fortemente discriminatorio».
Chi può in questo momento avere la forza e la credibilità di porsi come mediatore?
«La risposta secca è: nessuno, e questo è un problema. L’Unione Europea viene percepita da Israele come troppo filopalestinese, anche se la verità è che non ha una linea unica e quindi non è in grado di essere un interlocutore. Ed è un peccato, perché era un ruolo che avrebbe potuto assumersi. Gli Stati Uniti sono l’unico mediatore che Israele è disposto ad avere, ma sono percepiti dai palestinesi come di parte. Infine, il cosiddetto Quartetto vale a dire Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione europea e Russia, nato nel 2002, non è ovviamente in grado di svolgere alcuna mediazione».
L’altro problema è che anche la Palestina è divisa tra Fatah e Hamas.
«La divisione tra Hamas e Fatah, iniziata nel 2007, ha fortemente indebolito i palestinesi. È difficile dire ora, nel pieno della guerra, se i due attori del mondo politico palestinese riusciranno a trovare un punto di accordo alla fine delle ostilità. Molto dipenderà da cosa accade a Gaza e da quanto consenso avrà Hamas nella Striscia e in Cisgiordania. Certamente Fatah, che de facto coincide con l’Autorità palestinese, è attualmente molto impopolare. Politicamente Abu Mazen, leader di Fatah e Presidente della AP, è incapace di alcuna manovra negoziale e finisce per essere visto come una sorta di collaborazionista di Israele per la cooperazione che questo e l’AP hanno nel campo della sicurezza. Finché non si verificherà un cambio di leadership all’interno di Fatah, è molto difficile che questa possa recuperare consensi».
l'intervista
di Davide Orsato
L’analisi del giornalista che ha di recente pubblicato un manuale per spin doctors dal titolo «Non difenderti, attacca» e contiene 50 regole per una comunicazione politica (imprevedibile e quindi efficace)