L'intervista
sabato 1 Luglio, 2023
di Marika Damaggio
Quando ha annunciato sui suoi canali social l’uscita dell’ultimo libro («Le signore non parlano di soldi», Fabbri Editore), i commenti l’hanno spiazzata. E non solo perché esplicitano i deficit (gravi) di comprensione del testo, ma soprattutto perché svelano la pervasività di un modello che, alla donna, non consente la sfacciataggine di sconfinare là dove gli uomini fanno cose per i fatti loro mentre le compagne dovrebbero pensare a tirare su i figli. «Oh, finalmente qualcuno lo dice: le donne che parlano di soldi sono volgari» hanno scritto decine di follower (donne incluse). «Questo la dice lunga sulla profondità di un sistema patriarcale» riflette Azzurra Rinaldi, economista femminista, direttrice della School of Gender Economics all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, dove insegna economia politica. Ospite questo pomeriggio, alle 17 al CineTeatro dell’istituto Degasperi, del Festival Trentino 2060, Rinaldi viceversa da anni insiste su un concetto: l’emancipazione femminile passa attraverso l’emancipazione economica. «In Italia, oltre un terzo delle donne non è titolare di un conto corrente personale – dice – Una condizione che rischia di frenare l’empowerment, generando sudditanza nei confronti dei mariti o dei compagni». Ed è allora da qui, sfidando un modello economico (quello capitalistico) che ha saputo creare le condizioni per l’autoconservazione allacciandosi con un modello patriarcale che si può e si deve partire. La rivoluzione, del resto, per l’economista è già in atto.
Professoressa, andiamo dritte al punto: quanto ci costa la disparità di genere?
«Tantissimo. Perché, da un lato, è un costo effettivo: ovvero 370 miliardi di euro all’anno per i Paesi membri. Costi legati ad esempio all’assistenza sanitaria e psicologica della violenza di genere e, ancora, costi legati ai trasferimenti economici verso le donne che non lavorano. Dall’altra parte c’è poi la quantificazione del mancato guadagno, perché queste donne potrebbero lavorare ma non lavorano. Oggi in Italia l’occupazione femminile si attesta al 50%, una donna su due; è come se a livello sistemico noi non investissimo sulle donne. Eppure l’ultimo report di AlmaLaurea ci dice che le donne si laureano prima e con voti più alti; gli atenei pubblici investono su capitale umano che poi non viene impiegato. È mancata ricchezza. La Banca d’Italia stima una crescita del 7% del Pil se il 70% delle donne lavorasse. Il 70, nemmeno la totalità. A questo obiettivo siamo però lontani e persino la narrazione è sbagliata. Il nesso con la natalità è diverso da come ci viene posto da proclami perlopiù ideologici: più donne lavorano più è alto il tasso di natalità».
Senza denaro, dice, non può esserci empowerment. Perché è bene parlare di soldi alle donne?
«Significa educarle all’indipendenza economico-finanziaria, specie nei Paesi segnati da una forte polarizzazione di genere. Come l’Italia. Quando uscì il mio libro, “Le signore non parlano di soldi“, pubblicai la copertina nei canali social ma, al di là delle considerazioni sul livello di comprensione del testo, trovai decine di commenti che si complimentavano perché finalmente qualcuno aveva il coraggio di dire che sì, effettivamente le donne che parlano di soldi sono volgari. Questo la dice lunga sulla matrice culturale in cui ci troviamo ad agire. Chi produce e gestisce il denaro ha il potere. E vale anche a livello familiare, nelle coppie».
Nel suo volume, così come in tutte le sue pubblicazioni, spiega quanto i limiti di un modello economico consunto, quello capitalistico, siano un freno per un modello che sia più inclusivo. Dove risiedono i principali difetti?
«Il capitalismo, così come il patriarcato, riguarda una forma di potere: due modelli che si sono sempre spalleggiati. Fra la prima e la seconda rivoluzione industriale vediamo come si sono divisi i ruoli: alla donna è stato affibbiato il ruolo naturale della cura, sostenendo che ne sia naturalmente portata; invece all’uomo il ruolo naturale di esploratore del mercato. Il capitalismo induce alla riproduzione del patriarcato, io donna sto a casa a prendermi cura gratis dei bambini, degli anziani, dei malati. A distanza di duecento anni ancora accade così. I dati dicono che se chiediamo alle donne europee perché non lavorano, il 39% dice che non può perché le giornate sono piene. E in Italia questa risposta arriva al 65%. Si dimostra ancora che capitalismo e patriarcato sono allacciati. Cito un dato che rende l’idea: a livello globale si registrano 12,5 miliardi di ore in lavoro di cura non retribuito».
Le discriminazioni di genere, spiega, sono un danno economico per tutte e tutti. E proprio questa collettivizzazione del danno dovrebbe spingere una gestione, condivisa da uomini e donne senza lotte di genere, nel loro superamento. Ma da dove si parte?
«Nel caso del nostro Paese ci vorrebbe un impegno istituzionale. Partirei dal congedo di paternità perché quando una impresa deve scegliere chi assumere sceglie un uomo, perché se una donna viene assunta e se ne va ogni volta che fa un figlio, allora c’è chi sceglie una risorsa che, magari, non è la migliore in quel momento. C’è allora da cambiare la normativa sulla maternità e la paternità obbligatoria. In Spagna, per capirci, sono perfettamente equiparate senza distinzione di genere: una leva che mette al centro la meritocrazia. Stesso discorso vale per la Naspi: una donna post gravidanza si licenzia e riceve una indennità, è come se l’azienda dicesse pur di farti licenziare ti pago. A tutto ciò si aggiunge un profondo e fondamentale lavoro culturale per destrutturare una mascolinità tossica».
«Le donne sono le prime nemiche delle donne»: questo è uno dei cliché che nelle sue pubblicazioni smentisce, dati alla mano. Ci spiega perché, viceversa, la solidarietà femminile non solo esiste ma è la leva per un cambiamento?
«Storicamente la solidarietà femminile spaventa gli uomini, perché è potente. È così dalle società paleocristiane a oggi: nella gestione quotidiana, le donne si confrontano e si aiutano a vicenda. Invece la rappresentazione, sociale e mediatica, porta al contrario. Pensiamo ai cartoni che costruiscono sempre una contrapposizione fra donne: la principessa, giovane e bella, e l’anziana invidiosa della sua bellezza. Una rappresentazione pervasiva, tuttora presente. Del resto la bellezza è un elemento fondante del sistema patriarcale perché sottende che tu, donna, se sei bella puoi trovare chi meglio riesce a provvedere per te. La dipendenza economica è una condizione che rischia di impedire l’empowerment e fa sì che, in alcuni casi, le donne vivano una sudditanza nei confronti dei mariti o dei compagni e perfino che diventino vittime di violenza psicologica e di genere».
Siamo nel tempo della Yolo generation, delle grandi dimissioni. Pensa che questo rifiuto verso un modello di lavoro sino a qui praticato abbia a che fare anche con la mancanza di equità dentro alle imprese? Insomma: le nuove generazioni stanno già combattendo contro quell’alleanza fra capitalismo e patriarcato di cui parla?
«C’è sicuramente una componente di alienazione verso un sistema valoriale che non viene riconosciuto. Mia figlia di sei anni ogni volta sente nominare una qualifica al maschile riferita a una donna la corregge. Ho la sensazione che la mia generazione, e ancora di più quelle precedenti, stiano puntando i talloni per rallentare qualcosa che è già successo: la rivoluzione culturale è in atto. Può essere rallentata, ma non fermata».