la storia
mercoledì 28 Febbraio, 2024
di Adele Oriana Orlando
La telemedicina e il volontariato trentino hanno salvato un’altra vita, questa volta quella di un bambino di 2 anni che il 15 febbraio è arrivato in condizioni disperate al Centro ospedaliero Chiara Lubich di Lubumbashi, terza città del Congo. A condividere la gioia di aver salvato un’altra vita è stato uno dei medici che da anni presta tutto il suo sapere medico, talvolta in presenza in Africa, ma anche al telefono quando è in Italia, Giuliano Brunori, professore associato di nefrologia all’università di Trento e direttore dell’Unità operativa nefrologia e dialisi dell’Apss. La collaborazione a distanza, via Whatsapp, con il collega chirurgo Eugenio Ferri che da quattro anni lavora nel centro ospedaliero dov’è ricoverato il piccolo paziente, lo ha salvato. Il bambino era arrivato in ospedale con un’insufficienza renale acuta da crisi emolitica in corso di malaria. La felicità per questo ennesimo successo era talmente grande che Brunori lunedì ha condiviso questo frammento di vita su Facebook: «Lo abbiamo gestito con dialisi peritoneale mescolando glucosata al 5% e fisiologica. Oggi, dopo dieci giorni di trattamento, il piccolo ha ripreso una funzione renale normale. Grande risultato, fatto di collaborazione a distanza. Stasera vado a dormire felice». Ieri le condizioni del paziente sono migliorate a tal punto che riusciva a stare seduto sul letto e a mangiare. Una felicità incontenibile, condivisa anche dal coordinatore del centro dialisi di Cles e sindaco di Caldes, Antonio Maini, che con fierezza ha commentato: «Una bella storia che insegna come la telemedicina funziona bene se mossa dall’aspetto umano, riducendo le distanze geografiche e le disuguaglianze».
Questa è solo una delle tante storie di quella parte del mondo spesso invisibile. Un luogo dove la gente ha una scarsa, se non assente possibilità di accedere a cure mediche e farmaci per l’eccessivo costo. Lubumbashi conta un milione e mezzo di abitanti circa, il reddito giornaliero è circa un euro. Se qui i farmaci hanno costi proibitivi, le operazioni sono quasi inaccessibili se non grazie a fortunate donazioni e volontari. A riportare alla vita i pazienti come il piccolo salvato in telemedicina, è quell’azione di volontariato che sostiene progetti come quello del centro medico Chiara Lubich. Una realtà fatta di volontari con una mano sul bisturi e una sul portafoglio perché, spesso prestano la loro professione e, talvolta, la finanziano pure. «Nel 2020 – racconta il professor Brunori – il collega chirurgo si è trovato a dover partire per il Congo per gestire la situazione al centro, ha cercato quindi nefrologi che avessero questo tipo di esperienza, perché sapeva che avrebbe avuto problemi di insufficienza renali da dover trattare. Tramite amici comuni è arrivato a me e ci sentiamo ogni volta che ci sono questo tipo di problematiche in ospedale. Ci confrontiamo e gli do consigli su come gestire le situazioni che hanno una ricaduta sulla malattia renale». In quattro anni sono stati tanti gli adulti passati dalle mani e dai consigli dei dottori collegati in telemedicina, ma quello del piccolo protagonista di questa storia, è stato forse quello che li ha colpiti di più. «In Africa – spiega ancora il professore – questa era una situazione diversa dal solito. Il bambino è arrivato al centro in stato comatoso, in urgenza, aveva un’insufficienza renale perché ha avuto una crisi emolitica in corso di malaria. Ho consigliato al collega di mettere un catetere peritoneale, potevamo fare un tentativo di dialisi, anche se il vero problema erano le competenze e le soluzioni per la dialisi. L’unica possibilità che avevamo per dializzare questo bambino era di miscelare della fisiologica e della glucosata, per ottenere una soluzione dializzante abbastanza vicina a quelle che sono in commercio e così facendo, dopo quattro giorni il bambino si è svegliato». Una vittoria per questi medici che lottano ogni giorno per aiutare le persone nelle zone più povere del mondo a ritornare a vivere. Per il professore Brunori, che dal 2006 durante i periodi di ferie va in Africa, in Mali e in Ghana, a prestare la sua mano come medico volontario ma che in questo periodo non può partire per questioni legate alla sicurezza, è stata un’emozione grande, quasi equiparabile alla prima che ha vissuto in quelle terre. «La prima operazione fatta – ricorda il professore – tanti anni fa ormai, era stata particolare perché stavamo allestendo la fistola arterovenosa a una signora di quarantacinque anni, necessaria per poter fare il trattamento con dialisi, contemporaneamente stava nascendo una bambina. La giovane madre, dopo un paio di ore ha preso il suo fagottino ed è tornata in mezzo alla boscaglia». Un’emozione grande, perché racchiudeva una duplice vittoria della medicina che accompagna la vita: quella della nascita e quella della rinascita. «Per me – conclude Brunori – il famoso “mal d’Africa” non sta in un tramonto nel bel mezzo della Savana, ma sapere che con un piccolo contributo si può ridonare la speranza di vita a persone che altrimenti non ce l’avrebbero nemmeno».