l'inchiesta
giovedì 17 Ottobre, 2024
di Benedetta Centin
Non gli sarebbe bastato macinare di continuo «nero» nel suo bazar della zona di Tione, non registrando i pagamenti in contanti, grazie a un registratore di cassa non collegato all’Agenzia delle Entrate. No. L’imprenditore cinese che assieme a un connazionale, a sua volta gestore di una seconda attività commerciale, ha evaso in quattro anni la colossale cifra di 3 milioni di euro circa, grazie appunto a scontrini fantasma — un totale di 140mila quelli battuti nei due bazar — si sarebbe rifatto anche sui suoi dipendenti. Approfittando di loro, delle loro condizioni di extracomunitari, della loro «fame» di lavoro, della necessità di avere un permesso di soggiorno. A quanto emerso li avrebbe pagati solo per una parte delle ore effettuate, in alcuni casi anche facendosi retrocedere in contante delle cifre, o prelevandole lui stesso, potendo contare sul bancomat del lavoratore di turno. Un quadro che, stando a quanto sarebbe stato messo nero su bianco dagli inquirenti, è autentico sfruttamento del lavoro. Caporalato. Almeno questo sarebbe l’inquietante contesto venuto a galla grazie all’articolata indagine effettuata dalla tenenza della Guardia di Finanza di Tione, scaturita da un controllo ispettivo d’iniziativa e sviluppata nel corso di due anni.
I 2 denunciati e i sequestri
Un’attività, questa, durante la quale gli investigatori delle Fiamme Gialle non hanno lasciato nulla di intentato: hanno passato al setaccio le dichiarazioni fiscali, incrociato dati e testimonianze, raccolto riscontri alle accuse anche grazie a file e documenti extra contabili (perché, come scontato, quelli contabili non erano completi), e sondato ogni possibile aspetto e scenario. Così sono arrivati a contestare anche altro oltre al collaudato sistema truffaldino, messo in atto dai due titolari di attività commerciale con l’evidente scopo di raggirare l’ostacolo tasse, di eludere il Fisco, nascondendo buona parte degli incassi, omettendo quelle voci anche nelle dichiarazioni fiscali presentate nei vari anni di imposta (cfr il T di ieri). Ma ci hanno pensato i finanzieri a mettere fine a questo business illegale, criminale: i due cinquantenni, chiamati a regolarizzare la loro posizione con il Fisco, sono finiti davanti al giudice per difendersi da varie contestazioni. E nel frattempo si sono visti «congelare» beni del valore di 1,1 milioni di euro. E cioè una villetta, un suv di un noto marchio automobilistico, una seconda vettura, oltre a liquidità depositate su conti correnti. Sequestri preventivi e per equivalente, questi, effettuati dai finanzieri su delega della Procura ai fini della confisca, e cioè dell’acquisizione da parte dello Stato. Per gli imputati il rischio è infatti di non rientrare più in possesso dell’immobile, dei due mezzi e dei soldi.
Sfruttamento del lavoro
Come detto si è già aperto il processo a carico dei due cittadini cinesi, che si dovranno difendere, nel corso del dibattimento, dell’accusa di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifizi (punita con la reclusione da 4 a 8 anni), di occultamento o distruzione di documenti contabili, oltre che dalla violazione sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Ma la posizione di uno dei due è gravata anche da un’altra, pesante, contestazione: al termine delle serrate indagini era stato infatti denunciato per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Ai danni dei cittadini pakistani ma anche italiani che aveva fatto lavorare nel suo bazar che vendeva dai casalinghi all’elettronica, dai tessili alla cancelleria. Dipendenti che— come il connazionale a sua volta a processo — l’uomo avrebbe debitamente «formato» su quale dei due registratori telematici (casse) usare a seconda del tipo di pagamento da parte del cliente, se elettronico o in contanti. Dipendenti che avrebbe assunto con contratto part-time, nonostante lavorassero a tempo piano per lui. Stando a quanto emerso dagli scrupolosi accertamenti delle Fiamme Gialle, dalle dichiarazioni raccolte e dalle verifiche operate su più fronti, il datore di lavoro avrebbe appunto sfruttato senza scrupoli i lavoratori, pagandoli per una ventina di ore circa a settimana quando invece lavoravano a tempo pieno nel punto vendita aperto con orario continuato. A quanto risulterebbe, questi macinavano montagne di ore dietro il bancone e tra le corsie, accumulando straordinari su straordinari, arrivando anche a dieci, anche a quattordici ore quotidiane. Ma le ore effettive di lavoro non risultavano in busta paga e, manco a dirlo, non venivano retribuite per intero. E come se non bastasse alcuni dei dipendenti pakistani, secondo le testimonianze raccolte, si sarebbero visti decurtare lo stipendio di alcune quote, anche centinaia di euro. Una libertà, questa, che si sarebbe appunto arrogato il titolare e di cui ora sarà chiamato, tra le altre, a risponderne.