L'editoriale

martedì 13 Giugno, 2023

Berlusconi, il leader eccessivo

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L'imprenditore e il politico sono rimasti inscindibili, da qui l'eterno conflitto di interessi. Ha mutato radicalmente il canone politico, ma in Trentino la sua cultura non ha mai sfondato

La morte di Silvio Berlusconi non chiude l’era del «berlusconismo» perché, in fondo, si era già conclusa come dimostrano i flussi di consenso che stanno premiando l’ascesa di una destra radicale e assai poco incline al liberalismo. La stessa Forza Italia, da qualche anno, è transitata dal ruolo di partito egemone (anche nel contenitore del Popolo delle libertà) a quello più accessorio di un centrodestra con Fratelli d’Italia e Lega a trainare. Però è innegabile che assistiamo al distacco di un uomo che, da un punto di vista politico, ha polarizzato il Paese come pochi predecessori – e lo ha anche reso bipolare – e ne ha segnato anche la cultura. Per chi ne ha condiviso orizzonti e polemiche un supereroe letterario, per chi lo ha combattuto il virus che ha innestato una serie di disvalori nel terreno comune di cui paghiamo oggi il conto.
È sceso in campo, per usare una sua espressione, nel 1994 tra le macerie di Tangentopoli dove un sistema politico (Prima Repubblica) venne seppellito, culture comprese, dalle indagini della magistratura milanese. Una enorme tabula rasa che lui ha riempito con un discorso semplice e socialmente trasversale (il presidente operaio) che coniugava la freschezza di un nuovo messaggio mutuato dallo spettacolo e dal mondo delle (tele)vendite con una retorica (anti-comunista) ancorata ad un’altra epoca, ma anche ad un elettorato sensibile e privo dei riferimenti democristiani, liberali e socialisti. Il Berlusconi politico e il Berlusconi imprenditore sono rimasti inscindibili per tutto il tempo, per i conflitti di interesse di cui era portatore che hanno aperto un contenzioso inedito e per la lunga querelle che ne è derivata nei tribunali di ogni latitudine (36 processi e una condanna per frode fiscale). La «rivoluzione liberale» che aveva promesso come adesione ad un nuovo corso italico è rimasta in prevalenza nell’inchiostro dei volantini anche se il «berlusconismo» ha comunque saputo per un ventennio abbondante rigenerare il proprio consenso ed essere riferimento per tante elettrici ed elettori. Le sfide con Romano Prodi, oltre ad animare vaste comunità politiche, sono anche quelle che consentivano di avere percentuali di affluenza sempre e stabilmente sopra l’80%.
Berlusconi ha modificato radicalmente il canone politico. Non tanto nei riferimenti culturali e valoriali – divenuti più simboli che sostanza – ma nelle modalità di azione. Il sondaggio come tecnica di monitoraggio non sporadica del sentiment popolare e come strumento di indirizzo lo ha portato lui così come la spettacolarizzazione del «prodotto» politica/partito, promosso anche attraverso il ricorso al marketing che coniugava la vecchia propaganda con gli stilemi del consumo. Il patto con gli italiani in diretta tv, le gag televisive, l’attenzione all’immagine e alle immagini come elemento di narrazione, le iperboli che sfioravano la mitomania hanno creato una nuova estetica rispetto al rituale solenne del leader che alternava alta dissertazione e sensibilità sociali. Quella estetica politica alla fine è stata mutuata da molti suoi avversari tanto che oggi la tendenza al leaderismo assoluto permea anche i piccoli movimenti.
Forse una delle responsabilità maggiori che ha avuto è aver sdoganato e alimentato l’individualismo, promuovendo la soddisfazione di sé come elemento di competizione e traino di un Paese. Ma se la società non condivide un senso e un destino comuni non c’è emancipazione né avanzamento. Il rischio, come poi confermato, è quello di avere lacerazioni e solitudini o – nella migliore delle ipotesi – il disincanto.
Berlusconi è stato un personaggio eccessivo, in tutti i sensi. A partire dalla concezione di una relazione uomo-donna, anche al netto di inchieste e bunga bunga, non educativa per arrivare, stravolgendo il canovaccio, alle imprese con il Milan che non furono solo vittorie ma anche sperimentazione calcistiche. Ma il Milan è stato anche un grande volano di consenso politico.
Il Trentino ne è rimasto quasi immune. Un po’ per una caratteristica culturale del territorio, incentrata sulla sobrietà anche di una certa classe imprenditoriale (che sosteneva Romano Prodi), un po’ per l’intuizione dell’ex governatore Lorenzo Dellai e altri che con la Margherita costruirono un riferimento per il mondo postdemocristiano e civico. E così mentre alle Politiche Forza Italia cresceva, alle Provinciali non decollò mai, svuotata dalla Margherita. Nel 2003 la lista toccò il suo massimo con 5 consiglieri e il 13,7% dei consensi (era guidata da Mario Malossini). Anche per queste ragioni, Berlusconi rimase sempre distante dall’Autonomia trentina, preferendo piuttosto quella altoatesina dove aveva una delle sue pasdaran (Michaela Biancofiore) e il buen ritiro meranese.
Il Cavaliere – che pure sdoganò gli ex missini e diede per primo una veste di governo alla Lega – non ha eredi designati e nemmeno nascenti perché non sarebbe stato un leader assoluto. Per questo stimare la sua eredità politico-partitica è difficile e richiederà un orizzonte non prossimo. Nella contingenza il timore che lascia è quello di un partito in flessione, già cannibalizzato a destra, che rischia di arretrare ancora senza la presenza del suo ideatore.
Sono le contraddizioni di un protagonista radicale che, sebbene negli ultimi anni sia stato visto da molti dei suoi avversari con indulgenza, temperata ora anche dalla morte, ha inciso nella profondità culturale e nelle divisioni del Paese.