Università degli uomini&donne e della terra
giovedì 16 Febbraio, 2023
di Filippo Zibordi
Il crollo della Marmolada, l’alluvione delle Marche, la frana di Ischia. La Cop27 di Sharm el Sheik, conclusa tra poche luci e molte ombre. Il 2022, anno più caldo di sempre in Italia.
Sono convinto che, al netto di un gradiente geografico di prossimità e di interesse personale, la maggior parte dei lettori abbia sentito parlare di questi recenti eventi. Fenomeni violenti, come le tragedie sopra citate, o persistenti, come la siccità che ha raggiunto anche i rifugi di montagna e i nostri orti, hanno drammaticamente portato alla ribalta gli effetti della crisi climatica.
«Qui una volta c’era un ghiacciaio», sarà il cartellone che troveremo nei prossimi decenni sulle Dolomiti, in Adamello-Presanella e sull’Ortles-Cevedale: «Si sacrificò per mostrarci, da vicino, gli effetti del riscaldamento globale». Già, perché il ruolo dei ghiacciai nel XXI secolo, almeno alle nostre latitudini, è anche dimostrativo: nell’accorgerci che le montagne franano con maggior facilità rispetto al passato e che l’acqua comincia a scarseggiare a fondovalle e in pianura, capiamo – come folgorati – che il nostro futuro non può essere costruito sul «business as usual». Difficile dire se questo sarà sufficiente ad arrestare quella che qualcuno ha definito «la più grande sfida della storia dell’umanità».
Ma se invece parlassimo di biodiversità? Intanto, dovremmo cominciare con lo spiegare cosa sia. Perché solo il 44% degli italiani, secondo i dati dell’ultimo Eurobarometro, sa che con questo termine si definisce la varietà e variabilità degli organismi viventi e dei sistemi ecologici in cui essi vivono. Il 32% ne ha sentito parlare, ma non sa di cosa si tratti, e il restante 24 non ne ha la minima idea. Di conseguenza, se provassimo di nuovo con l’esperimento con cui ho iniziato questo articolo e io scrivessi, per esempio, che 161 specie di vertebrati italiani sono a rischio di estinzione (pari al 28% delle specie valutate, secondo i dati di Ispra), credo che solo pochi saprebbero elencarne almeno una. Non andremmo meglio se scrivessi che in Italia vivono più di tremila specie aliene, 22 delle quali sono di rilevanza unionale dato che causano gravi danni alle specie e agli ecosistemi, nonché perdite economiche e problemi sanitari. E, per finire, se citassi la Cop15 svoltasi a Montreal nel dicembre scorso, sono abbastanza certo che solo una sparuta minoranza saprebbe che si tratta della conferenza gemella di quella di Sharm, dedicata alla biodiversità: un evento focale per invertire la tendenza al declino della natura entro il 2030, conclusosi con un accordo per proteggere il 30% della biodiversità delle terre e dei mari entro fine decennio. In pochi, anche tra i più eruditi, saprebbero di cosa sto parlando perché né la politica, né i mass media si sono curati dell’incontro di Montreal, come poco si curano delle questioni ambientali, fatto salvo per quelle legate all’energia, di gran moda di questi tempi per ovvi motivi.
Eppure noi esseri umani siamo parte della straordinaria varietà della vita sulla Terra e dalla biodiversità da cui dipendiamo. Per il cibo di cui ci nutriamo, per l’acqua che beviamo, per l’aria che respiriamo, ma anche per il nostro benessere e per la capacità della nostra società di far fronte alle minacce per la salute e alle catastrofi. Insomma, la natura ci è indispensabile per tutto. Secondo la strategia dell’Ue sulla biodiversità per il 2030, «il solo modo per preservare la qualità e la continuità della vita umana sulla Terra è proteggere e ripristinare la biodiversità» e questo va fatto attraverso una rete coerente di aree protette, riportando la natura nei terreni agricoli, arginando il consumo di suolo, dando spazio a foreste più sane e resilienti, incentivando soluzioni a somma positiva per la produzione di energia, inverdendo le zone urbane e periurbane, riducendo l’inquinamento e lottando contro le specie esotiche invasive. Si tratta di cambiamenti ambiziosi, certo, ma necessari se vogliamo convertire la spirale negativa che lega ambiente, sviluppo e diritti umani. Perché in quei luoghi del mondo in cui l’ambiente viene sacrificato, si ingenera un circolo vizioso che porta all’arresto dello sviluppo, alla negazione dei diritti umani e in qualche caso alla guerra, in altri alle migrazioni o al terrorismo. Succede già anche molto vicino a noi in un «ciclo cumulativo» negativo che qualcuno ha denominato matrice di Gaia. La buona notizia è che la matrice può anche essere «girata», per così dire, al contrario: dove riusciamo a mantenere o a ripristinare elevati livelli di biodiversità, a cascata abbiamo miglioramenti a livello sociale ed economico. Ambiente e sviluppo non sono contrapposti: devono semplicemente andare nella stessa direzione. Si tratta dell’approccio di Agenda 2030, il programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 da 193 Paesi membri dell’Onu. I suoi 17 obiettivi di sviluppo sostenibile riguardano sia l’economia, sia la società, sia l’ambiente, nel tentativo di guidare il mondo sulla strada da percorrere nell’arco di questo decennio.
La perdita di natura è strettamente collegata al cambiamento climatico: le due crisi si rafforzano a vicenda, con implicazioni potenzialmente disastrose per la salute degli ecosistemi a livello globale. Per combattere il cambiamento climatico, abbiamo bisogno di foreste forti e di oceani sani per assorbire l’anidride carbonica; ma il riscaldamento climatico stesso sta mettendo a repentaglio questi sistemi. Oggi non c’è più spazio per le mezze misure: è necessario cambiare rotta in vari settori e, se è vero che le azioni con il maggiore impatto sono quelle attuate dalle istituzioni, allora è la cittadinanza a doverle esigere con fermezza. Una cittadinanza che deve dunque diventare più consapevole, informandosi sulle tematiche della biodiversità – di cui parleremo, ad esempio, nel corso «Ecologia integrale e cura del noi» organizzato dall’Università degli uomini e donne e della Terra – e chiedere che l’emergenza ambientale e climatica vengano messe al centro del dibattito politico, come forse già ora vuole la maggioranza silenziosa.
Finora, non è stato così: di clima si parla poco, di ambiente ancora meno… e intanto il tempo a nostra disposizione per cercare di salvare la Terra, e con essa noi stessi, è sempre meno.
Quello di oggi è il primo di una serie di articoli che nasce dalla collaborazione fra «Il T» e i docenti dell’Università degli uomini&donne e della terra. Filippo Zibordi, autore del contributo, è un naturalista e divulgatore scientifico, referente Trentino dell’Istituto Oikos Onlus e coordinatore del master di primo livello «Fauna e human dimension» presso l’Università degli studi dell’Insubria. L’Università degli uomini&donne e della terra, che ha sede a Riva del Garda, è un percorso di formazione e azione (patrocinato sia dall’Università degli studi di Trento che da quella di Brescia e valido come formazione per il personale docente e sanitario) per sviluppare un pensiero capace di orientare buone pratiche ecologiche per un futuro sostenibile. Il corso ha la durata di due anni per dieci sabati ogni anno. L’iniziativa è nata dalla decennale esperienza e professionalità dei molti docenti coagulati intorno ai temi dell’ecologia come pensiero e prassi volti alla salvaguardia del creato nei suoi aspetti fisici (natura, attività umane, animali e vegetali), antropologici, culturali e valoriali. Le sedi del corso sono a Maso Pacomio di Castel Campo (Fiavé) e l’oratorio San Gabriele di Arco. Il nuovo biennio inizierà il 6 maggio. Per ulteriori informazioni, visitare il sito www.uniudt.it o scrivere a info@uniudt.it o chiamare il 34851174527.
il festival
di Redazione
“Tieni il tempo!” è il titolo scelto per la decima edizione del Festival, che animerà Rovereto fino a domenica. Ospite della prima giornata il famoso climatologo