L'intervista
domenica 13 Novembre, 2022
di Denise Rocca
A vent’anni dalla nascita del Mart l’architetto ticinese Mario Botta guarda alla sua creatura e al Trentino.
Vent’anni fa nasceva il Mart. Come si è approcciato ad un concetto nuovo di museo e ad un’opera architettonica così dirompente per Rovereto?
Il progetto del Mart ha un’origine molto lontana, un travaglio dalla sua nascita fino a come è venuto a crearsi che ha avuto un iter di circa una ventina di anni. E in vent’anni è cambiato il mondo, così noi abbiamo dovuto cambiare anche i criteri e la struttura del Mart stesso, adeguandola alla crescita che il museo come struttura collettiva ha assunto, non solo in Italia ma anche all’estero. È diventato un polo non solo di conservazione delle opere ma anche di promozione di un ‘attività multipla, plurima, e quindi ha cambiato l’ideologia, lo spirito con il quale abbiamo poi costruito il Mart che già è pensato fin dall’origine come una struttura polivalente: con un auditorium, elementi complementari come il bookshop che in quei tempi venivano ad arricchire l’idea della conservazione. Un’idea che era ancora quasi ottocentesca che il Mart superava per diventare invece una struttura polivalente con varie attività che si aprivano alla vita dell’uomo.
L’architettura cerca di prevedere il futuro, anche di superare degli schemi vecchi di costruzione. Come può un territorio come il Trentino uscire dall’architettura del Novecento lasciando un segno sul territorio che non diventi uno sfregio?
L’architettura è sempre uno specchio, talvolta impietoso ma sempre veritiero, delle esigenze, della tensione spirituale e delle speranze di una popolazione. È chiamata a interpretare non solo le funzioni tecniche ma anche le aspettative, le attese, le speranze di chi abita un territorio. Noi, da questo punto di vista, quando siamo venuti in Trentino non abbiamo fatto altro che tentare di cogliere lo spirito del tempo e dargli forma, di donargli un’attesa tale da poter soddisfare poi le generazioni più vicine a noi e che più di altre meritavano ed erano in attesa della configurazione finale.
Come sono invecchiati il museo e la sua idea che fosse anche una piazza aperta sulla città di Rovereto?
Avevamo pensato a questa piazza che doveva appartenere prima di tutto alla città, e solo in un secondo tempo al Mart. Quindi abbiamo forzato una ricezione che il Mart poteva esercitare sulla città. Come un’antenna. Era però il prolungamento di un vicolo artificiale, creato da noi, che affaccia su corso Bettini. E questo vicolo porta ad una nuova piazza, ad una nuova centralità e a tutti questi nuovi servizi che si svolgono attorno al Museo. Era una scommessa che noi avevamo fatto rompendo il sistema gerarchico della porta, cioè di un ingresso solo per entrare al museo, pensando invece di entrare su una piazza.
Corso Bettini fu pensato come il vero foyer del Mart. Che ne pensa dell’evoluzione del contesto urbano attorno al museo?
Alcune attese possono ancora divenire, non è detto che la struttura di corso Bettini debba restare così come è. Noi avevamo pensato al foyer nel senso che era lo spazio contiguo al Mart e quindi era lo spazio naturale per le attività plurime che normalmente svolge un foyer: è luogo di incontro, di passaggio, di transito. Ed è qualcosa che si presta anche alle tendenze della vita. Corso Bettini può essere in attesa degli eventi, anche futuri.
Partendo dalla visione di allora, come si immagina i prossimi vent’anni del museo roveretano?
Le mura sono una protezione fisica, temporanea, che può durare uno, due, vent’anni o secoli, può anche ancora modificarsi. La struttura del Mart vive se ci sono le forze per farlo vivere. Non è l’architettura che da sola può assicurare una secolarità del tempo e dei suoi spazi. Il Mart ha avuto successo perché la gente di Rovereto lo ha meritato, ha intuito le occasioni e i tempi di una cultura artistica che si è evoluta e il Mart l’ha saputa seguire.
Se le fosse dato modo di rifare le opere che ha realizzato, sarebbero molto diverse oggi?
Non si può fare il processo al tempo e soprattutto non lo si può fare al proprio tempo: ogni epoca offre il meglio che si può dare in quel periodo, nelle condizioni che sono date, talvolta anche nelle contraddizioni. Oggi il Mart sarebbe diverso, come è naturale che sia: vent’anni nella vita di un uomo sono un pezzo di esperienza che dobbiamo confrontare con gli esempi di altri contesti e di altri uomini che hanno maturato una possibile crescita. Credo però che le grandi linee attorno alle quali abbiamo pensato il museo restino quelle, con un aggiornamento in senso ecologico.
Per lei che ha studiato questo territorio, avendo progettato anche Giurisprudenza nel capoluogo, cosa si sentirebbe di fare nel Trentino di oggi?
Fin’ora il territorio trentino mi sembra che abbia risposto molto bene alle nuove esigenze di rispetto del paesaggio e credo che debba cercare di comprendere quali sono le vocazioni profonde che lo porterebbero a modificare il suo assetto geografico e fisico. Mi sembra che la natura di questa popolazione sia molto pragmatica, di origine contadina, legata all’agricoltura, che mantiene in sé una verità anche nelle sue esigenze. Non mi sembra di sentire delle componenti bizzarre, che stravolgono la crescita di una società nata come agricola e che oggi si misura con il terziario avanzato.
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Record di presenze per Antonella Viola a Borgo Valsugana e per Ivan Maffeis a Pieve Tesino. Tutti gli incontri sono disponibili sul canale YouTube della Fondazione Trentina Alcide Degasperi