L'intervista

domenica 14 Gennaio, 2024

Carmine Abate e il romanzo come coscienza sociale: «Ho raccontato i paesaggi della Vigolana minacciati dalla Valdastico. Sull’A31 la popolazione è stata esclusa dal dibattito»

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Lo scrittore calabrese trapiantato a Besenello: «La narrazione è uno strumento contro il potere? Lingue di minoranza e dialetti, tesoro da tutelare»

«Il romanzo è morto». «No, è ancora vivo». «Non è morto, ma moriranno i lettori: ne resteranno pochissimi». Sulla questione si litiga da quasi un decennio. L’ultima profezia, datata 2018, è di Philip Roth, nel frattempo scomparso. Siamo da pochi giorni nel 2024, e il romanzo, stando a quanto dicono i critici, è vivissimo: il 2023 si è chiuso con un bilancio positivo riguardo alle uscite annuale. C’è il grande testamento di un mostro sacro: («Il passeggero» e «Stella Maris» di Cormac McCarthy, c’è la conferma di un grande narratore che sa far emozionare (e rabbrividire) a oltre un quarantennio («Le schegge» di Bret Easton Ellis), c’è la nuova generazione di italiani che dimostra di essere in forma (Bernardo Zannoni, Giulia Palomba, Mattia Insolia per citare alcuni nomi). Libri belli, insomma, ne sono usciti. E — cosa ancora più importante — sono state scritte storie che valgano la pena essere raccontate. Tra coloro i quali non hanno mai smesso di credere alla potenza della letteratura (e, segnatamente, della narrativa) c’è Carmine Abate. Lo scrittore, originario di Carfizzi, provincia di Crotone, vive da anni in Trentino, a Besenello. La sua ultima opera, «Un paese felice» (Mondadori), è stata inserita tra i migliori romanzi del 2023 nelle classifiche «di qualità», redatte di critici letterari.

Proprio la sua ultima fatica prende spunto da un fatto di cronaca, la scomparsa «programmata» di un paese, Eranova, per «superiori interessi economici». Che ruolo ha la letteratura nel raccontare il passato e il presente?
«Per certi versi, questo romanzo rappresenta la mia storia più universale e attuale. Il borgo di Eranova venne raso al suolo per far posto a quello che doveva essere il “quinto centro siderurgico” di Gioia Tauro, un centro che non venne mai realizzato: ci guadagnarono la mafia e i politici corrotti, collusi: oggi si direbbe “populisti”. Oltre agli abitanti, sparirono settecentomila piante. Di storie simili ce ne sono altre in Italia. Penso a Curon Venosta, sommerso in Alto Adige. Penso al Vajont, come ha spiegato bene Mauro Corona parlando del mio libro in televisione. In quel caso il potere non si è fermato nemmeno davanti a una montagna che si sapeva essere marcia. Eranova non era solo un paese fatto di case, di paesaggi mozzafiato, era anche la memoria delle persone che ci abitavano. Ecco, questa contrapposizione tra potere e quanti lo subiscono merita di essere raccontata. La memoria di quei luoghi merita di essere disseppellita e difesa. La letteratura, la narrativa, i romanzi, possono ancora avere un ruolo importante in tutto ciò».

«Un paese felice» è uscito l’anno scorso. Ha qualche progetto per il 2024?
«Tra poche settimane uscirà negli Oscar Bestsellers della Mondadori l’edizione economica del “Cercatore di luce”, il mio romanzo precedente. La nuova edizione verrà presentata a Saint Moritz davanti al “Trittico della Natura” di Giovanni Segantini. È un grande onore visto anche il ruolo che il pittore ricopre nel libro».

È un romanzo ambientato nella «sua» Besenello, tra la Scanuppia, la Vigolana e le zone sulle quali incombe il progetto dell’allungamento dell’A31, la Valdastico, su cui ha avuto modo di prendere posizione…
«È un caso analogo a quelli già citati, da Eranova al Vajont. Si tratta di un’opera che minacciava di distruggere un’intera valle e che non è pensata per il bene della collettività. Sono contento di averne parlato e, francamente, spero non si faccia mai, in nessun posto. Si dirà, come per altre cose, che è un volano per l’economia, che porterà sviluppo, lavoro. Ma il lavoro non dovrebbe mai diventare un ricatto, non dovrebbe mai prevaricare le persone e un territorio. Un territorio, la sua memoria, va rispettato anche dai politici. Almeno, si interpelli la popolazione, prima. Non mi risulta sia stato fatto».
Il fatto che il libro venga pubblicato in edizione economica significa che è sulla strada per diventare un long seller.
«Molti miei romanzi hanno seguito questo percorso e la cosa che mi fa maggiormente piacere è che si aprono nuovi pubblici, in particolare quello dei più giovani. Ecco, si parlava prima di ruolo e di potenza della letteratura: anche libri come questi entrano nelle scuole e fanno riflettere i nostri ragazzi. Io non credo in un ruolo strettamente politico del narratore, ma sollevare questioni, ridare vita a storie rimosse, urgenti, è il nostro mestiere».

Lei quindi non pensa che il romanzo sia a rischio estinzione…
«L’arte di raccontare storie non sparirà mai. Forse si trasformerà un po’, quello sì. Guardo con molta attenzione al fenomeno degli audiolibri, che si avvicinano molto alla letteratura orale, alle origini del racconto».

Parlando di tradizioni orali: nell’ultimo romanzo è tornato nella terra d’origine, la Calabria, dove è cresciuto parlando una lingua di una minoranza, l’arbëresh. Anche il Trentino è terra di minoranze linguistiche. Rappresentano ancora un valore, qualcosa che valga la pena tutelare?
«Ho sempre vissuto la mia appartenenza alla minoranza arbëreshe come una ricchezza. Fino a sei anni parlavo solo questa lingua, per me l’italiano era un idioma straniero. A scuola, gli insegnanti ci raccomandavano di non usarlo, temevano che non avremmo mai imparato l’italiano. Crescendo ho scoperto invece che essere bilingue mi ha dato una competenza maggiore anche in italiano. Conoscere una lingua in più significa avere un occhio e un orecchio in più, ti dà una visione del mondo diversa, uno strumento in più per comprendere meglio la complessità del presente».

Il ragionamento si può estendere ai dialetti?
«Sì, ne sono assolutamente convinto. Ognuno di noi ha una madrelingua. Ovvero la lingua con cui ti parlava la mamma quando ti trovavi nel suo grembo. Ogni dialetto è una miniera linguistica, una ricchezza culturale, e pertanto va preservato».

Nelle sue opere del passato ha parlato molto d’emigrazione. Lei stesso ha vissuto a lungo, da emigrato, in Germania. Ora, il tema degli italiani che lasciano il proprio Paese è tornato d’attualità, con l’aggiunta dei timori legati alla demografia.
«Visto dall’esterno sembra quasi che la questione non esista più o che riguardi soltanto la cosiddetta “fuga dei cervelli”. Eppure ci sono paesi che stanno sparendo, spolpati dall’emigrazione. La mia Carfizzi è passata da 1.500 abitanti a 500. Il fenomeno esiste anche in Trentino, anche se c’è meno costrizione. Ecco, a me preoccupa proprio questo: che nel Sud ancora oggi ci siano persone costrette ad emigrare, perché non riescono a trovare un posto di lavoro nella propria terra. Ai giovani auguro che possano scegliere liberamente se restare o partire».

Il libro più venduto in Italia nel 2023 è «Spare», la biografia del principe Harry di casa Windsor. Ma anche il controverso «Mondo al contrario» del generale Roberto Vannacci ha superato le 200 mila copie. Che fotografia restituisce del panorama editoriale italiano?
«Non ho nulla contro i best seller in generale, perché aiutano a tenere in piedi il mercato. Se il primo libro mi pare una riuscita operazione di marketing, sul secondo preferisco non commentare».